Intervista rilasciata a Paolo Polvani da Annamaria Ferramosca

Intervista rilasciata a Paolo Polvani da Annamaria Ferramosca per Tinelli Poetici, gruppo facebook che dedica pagine allo scambio con autori di poesia pugliesi. 

 

Quando e come si è manifestata in te l’urgenza della poesia?

Verso i vent’anni. Ma la poesia non si materializza all’improvviso, credo si autoprepari a lungo, prima, senza che se ne sia consapevoli. Aveva infatti già lavorato in me per anni, durante l’infanzia, quando m’incantavo nell’ ascoltare brani di poemi omerici dalla voce di mio padre, quando bevevo la magia di favole in rima, di grande potenza immaginativa, raccontate a noi bambini, quasi cantando, da una signora russa amica di famiglia. Poi, durante l’adolescenza, complice un meraviglioso insegnante di lettere, i primi tentativi di scrittura in versi, che mi rivelavano il piacere della creatività, la scoperta di poter dare corpo al mio mondo visionario maneggiando la parola, piegandola alla necessità ritmica del verso. Continuavo intanto a leggere e divorare poesia, ormai fuori dall’ambito scolastico – tantissimi autori italiani e stranieri- sforzandomi di leggere, laddove arrivavano le mie competenze linguistiche, anche il testo originale a fronte.

Così, mentre studiavo all’Università una materia scientifica, Biologia, che pure mi affascinava, contemporaneamente – con tremore- cominciai a scrivere, come in una sfida con me stessa e una misteriosa gara con tutti i poeti che anmmiravo, per scoprire se, sia pure in minima misura, sarei stata capace di creare qualcosa di intenso e armonico, di esprimere quel che sentivo con sufficiente efficacia comunicativa. Questo esercizio allenante, che mi sfibrava e pure rendeva felice, è durato nell’ombra per circa trenta anni. Poi, per puro caso, fortemente incoraggiata dal poeta Plinio Perilli, mi decisi a pubblicare il mio primo libro, Il Versante Vero (Fermenti), che mi valse un Premio Opera Prima (Aldo Contini Bonacossi, 1999).

 Nei versi è presente la tua terra? Che rapporto hai col luogo in cui sei nata?    Sono nata a Tricase, nel cuore del Salento, che è l’antica Messapia, la “terra tra due mari” che mi richiama voci ancestrali di genti arcaiche, quelle che hanno lasciato graffiti nelle grotte di Porto Badisco, e genti cretesi, greche, illiriche e da altre rive del mediterraneo, venute qui scambiare e a vivere. Ho respirato aria e accenti della Grecìa salentina, dove ancora i vecchi parlano in grico. La mia terra mi ha insegnato a sentirmi felicemente e orgogliosamente ibrida, mediterranea prima che europea. Questa mia terra è pure la terra del tarantismo, che rivela molti altri aspetti, non solo quelli antropologici e folclorici; taràn è termine arcaico messapico, il cui senso è moto vorticoso, danza misterica legata al mito del labirinto come ricerca del sé ancestrale, svelamento di essere pura energia, ritorno incessante al caos originario. Tutte queste tracce, riverberi dl un genius loci vivo e potente, si amalgamano spesso e inaspettatamente nei miei versi. E il mio ritorno, ogni estate, nei luoghi dove ritrovo amici vecchi e nuovi, resta per me un rito rigenerante e fertile di creatività, cui non posso sottrarmi.

Ci sono autori ai quali ti senti particolarmente legata?  Sono numerosissimi i poeti, italiani e stranieri, che nel mio sterminato Kilometraggio di lettura ho incondizionamente ammirato, cui sono fortemente debitrice. Tra questi vorrei nominarne solo tre: Lorca, Borges, Celan. Federico G. Lorca è il poeta amatissimo per  la potenza surreale, magica, carnale del suo canto,  Jorge Luis  Borges per la sua sconfinata e cultissima visione del mondo e dell’oltre, Paul Celan l’ho amato e continuo ad amarlo per il ritmo sacrale della scrittura e per aver rifondato la Poesia come l’umano capace di cantare oltre ogni dolore.

Nella tua poesia quali sono i temi più ricorrenti?    Prima di parlare dei temi che finora sembrano attraversare la mia scrittura, sento la necessità di esprimere una mia solida convinzione:  non si può circoscrivere la poesia di un autore connotandola con etichette e schemi che ne immobilizzano il percorso. La scrittura poetica autentica è ontologicamente pensiero libero, aperto a infinite nuove evoluzioni, refrattaria ad ogni definizione o canone. La poesia rifiuta ogni intento  classificatorio, operazione che ha sempre il sapore della soggettività  e subisce l’ influenza di  modalità di lettura legate al tempo. La poesia è capace di attraversarlo, il tempo,  se conserva la capacità di far emergere quel quid di universale e memorabile, in cui il lettore si riconosce e che nutre la sua interiorità. Solo dopo aver chiarito questo fondamentale aspetto, posso passare a dire dei fuochi tematici che, almeno finora, attraversano i miei versi, ma che sento proiettarsi verso altri ignoti futuri orizzonti, nella ininterrotta ricerca di senso.  Vi trovo i temi del “segno che si fa parola limpida” e del  “cerchio di condivisione  e scambio” necessario lungo ogni meridiano.  Da qui quel tema della mediterraneità, di cui poc’anzi parlavo, che avverto come indiscussa ricchezza per la parola.

E centrale avverto pure l’ascolto dei segni provenienti da quelle che chiamo “infravoci” della natura, animali-piante-pietre, e dalle voci spontanee e incontaminate dell ‘infanzia.  Intensa è pure la visione del femminile, che vedo come energia volta non solo alla protezione della specie, ma anche alla pacifica relazione interumana e con la natura. Frequente è poi il ricorso al mito, non come mera citazione, ma come risorsa per riannodare un filo interrotto, per una possibile mitopoiesi dell’oggi, ricerca di nuove figure di senso lungo il tempo.

Tra le pagine aleggia poi, costante, l’insofferenza per questo nostro disastrato mondo, dominato dai demoni del profitto, della tecnologia e della ipercomunicazione, quest’ultima responsabile di azzerare la comunicazione autentica e ottundere l’autonomia di pensiero. E infine, la parte dell’ombra, ineludibile: la riflessione sull’effimero che siamo, sulla nostra fine, questo inesorabile ritorno alla spirale ciclica, al cosmo da cui proveniamo come nebbia di molecole. Domande irrisposte, di fronte alle quali l’unica reazione degna sento essere quella di sottrarsi ad ogni superficialità, radicarsi in umiltà nell’essenziale, nello stringersi in cerchio solidale.

Ritieni che la poesia di impegno civile sia per un autore una strada obbligata? Una sorta di dovere morale?     No, credo che un poeta non debba prefiggersi obbligatoriamente nessun compito, dunque la sua scrittura non potrà essere, e meno che mai definirsi, “scrittura impegnata”. La poesia, pur attraversata da scene dall’attualità e dalla cronaca, non può indicare soluzioni pratiche e linee per la pòlis, ma solo – e a suo modo – può rendere testimonianza dilatando lo spazio di autonomia di pensiero, unico strumento di salvezza dall’innaturale che minaccia e ferisce la nostra dimensione umana.

Pensi che sia necessaria oggi una comunità critica, capace di far emergere la produzione poetica di qualità? Quali i limiti dell’attività critica nei confronti di autori e lettori?   Certamente oggi la poesia soffre dell’assenza di un contingente di critici competenti  e responsabili che, come auspica la saggista Sonia Caporossi nel suo recente libro ”Da che verso stai”, siano pronti a dichiarare la propria metodologia di analisi e l’apertura al confronto con altri critici e ad altre modalità di studio. Sappiamo però che ogni opera poetica, per la sua  singolare natura, si sottrae  a giudizi di valore e, tranne quando con grande evidenza e ai più appare mediocre, accetta solo di essere analizzata dall’interno dei testi, senza dover subire l’influenza del “nome” dell’autore/ o prefatore/ o editore.  E’ questo il fuoco centrale dell’operazione critica, della sua onestà e limpidezza, e soprattutto del rispetto  nei confronti dei lettori.  Ecco perché ritengo augurabile per la salute della poesia di oggi, una lettura analitica su testi inediti “in anonimo”, allargata anche a docenti,  studenti, editori,  lettori, autori, su cui aprire un confronto critico larghissimo, oggi possibile attraverso il web, coordinandosi con i tanti – tra cui molti autorevoli – siti letterari. Per un lettore che volesse avvicinarsi ad una poesia contemporanea di spessore, farebbe grande differenza  scegliere a caso un libro magari solo indicato da un battage editoriale o da una prefazione amicale,  o scegliere un’opera sottoposta prima della pubblicazione a larghissimo e limpido vaglio. L’alternativa purtroppo  rimarrebbe, per i lettori, il continuare a brancolare nell’indistinto mare della scrittura poetica o pseudopoetica e per gli autori, anche quelli affermati, sottrarsi ad un confronto onesto e fertile di miglioramento per la propria parola.

Che cosa è per te “poesia di ricerca”?  Ti riconosci  in questo filone di poesia?    Credo che non abbia molto senso definire una poesia come “ poesia di ricerca”, poiché nel poiein, proprio in quanto fare liberissimo, è insito ontologicamente il concetto di ricerca come sguardo largo proiettato anche nel futuro e specchio di ciò che agita la contemporaneità in cui l’autore è immerso. Dunque la vera poesia non può mai mostrarsi imbalsamata su asfittiche ripetizioni di moduli passati, ma nella sua costante vitalità e parallelamente all’evoluzione della lingua, si apre nel linguaggio e nello stile, oltre che nei temi, ad infinite possibilità e a infiniti possibili esiti, compresi pure i rischi nella diminuzione della  sua efficacia comunicativa. Credo che, nella misura in cui l’autore ascolta-vive-riflette il mondo e immette autenticità e onestà nel suo fare, senza forzare la forma per seguire mode e teorizzazioni assurde, la sua scrittura possa lasciare un’impronta più o meno memorabile in chi legge-ascolta. Se una poesia è autentica e disperata, il lettore riesce a captarne le vibrazioni e comprendere anche ciò che può sembrare criptico e incomprensibile, perché la parola in poesia offre spazi sconfinati capaci di liberare immaginario ed emozioni, aprire a nuove utopie.   È per queste convinzioni che nella mia scrittura cerco un impianto stilistico che sia insieme moderno e continuamente in discussione con se stesso, e sempre strumento per trasmettere senso. Curo moltissimo il ritmo del verso, con  viva attenzione all’aspetto orale, non al fine di un esito performativo, ma per cercare un  qualche meccanismo di memorabilità, una grazia di voce e pensiero come allineamento di un ordine giusto. E’ pure un lavoro intenso di sottrazione, ripetuto fino ad un grado – mai completo – di  Il linguaggio vorrei riflettesse la mia permeabilità al mondo contemporaneo, ma scopro che spontaneamente si collega ad una storia sedimentata della lingua, con echi dal passato, dal mito, dalla narrazione omerica e dalla lirica greca, a volte con insert , che spontaneamente s’impongono,di versi da poeti amatissimi. E una mia personale scelta lessicale, iniziata già nel mio terzo libro e poi proseguita nelle successive raccolte, è l’uso, accanto a termini dalla scienza, dal dialetto, da altre lingue, di “termini polifusi”. Si tratta di neologismi costituiti da due parole agglutinate, in cui sento che valore semantico e potere evocativo si moltiplicano, assumendo nuovo senso, diverso  da quello dei due termini usati singolarmente. Credo che questa modalità di fusione di termini  possa aprire, usata con grande misura, una più larga  possibilità di scelta lessicale e conferisca nuovi esiti sonori e ritmici al verso, per la più stretta contiguità di certe aperture vocaliche e consonanze.  Guardo poi con attenzione e simpatia (nel senso di comunanza del sentire) alla tendenza attuale ad una ibridazione delle arti, una sinestesia di linguaggi e generi quali musica/ scienza/ ecologia/danza/pittura/ fotografia/video arte, che credo sia capace di dilatare e fertilizzare l’immaginario, opponendosi alle omologazioni e alle spinte individualistiche e identitarie dilaganti. Grazie infinite per la possibilità offertami di rispondere a queste dense domande.   ANNAMARIA FERRAMOSCA, gennaio 2018