Introduzione di M.Teresa Ciammaruconi

 

 

Trittici

di

Annamaria Ferramosca

 

A volte, all’improvviso, sulla linea pura dell’orizzonte si aprono fenditure. Il poeta si avvicina: il respiro si allarga, le palpebre si stringono nella percezione di un precipizio ancora inesplorato. È un viaggio senza garanzie. Biglietto di sola andata. Al ritorno, se ciò avverrà, si sarà diventati altro.

Annamaria Ferramosca, ciclicamente, riparte.

Lei lo capisce quando il tempo dell’attesa è compiuto, il tempo che è stato necessario per ricomporre le novità dell’ultima faticosa conquista in un sistema di senso sottilmente rinnovato, intimamente arricchito. Nulla di codificato o determinato dalle mode letterarie. Annamaria  sa che la sofferenza dell’impresa si giustifica solo se la vita è in pericolo.

Allora il suo viaggio ricomincia, lì dove il focus della visione si appanna ed è necessario cercare nuovi punti di osservazione. Le approssimazioni si susseguono nell’ipotesi di quel punto dove la solitudine della ricerca si coniuga miracolosamente con l’incontro.

 

Non è stato facile, nella babele delle immagini che rende la nostra cultura un folle labirinto, non è stato facile distinguere il richiamo di quell’opera d’arte figurativa- quel segno, quindi – che, pur profondamente compiuto, ancora offra spazio a nuove relazioni. Annamaria Ferramosca si accende alla suggestione di figure antiche e nuove per dialogare con esse, attraverso di esse. Un gioco già giocato, si può osservare. Certamente è lunga la tradizione della scrittura legata all’opera figurativa e viceversa. Ma è appunto questa la sfida: esporre il proprio io al contagio di un altro io perché scaturisca un noi senza precedenti, una pluralità umana solo transitoriamente oggettivata nella figura creata dagli artisti.

Nella cornice i volti attraversano il tempo, indifferenti. La loro vita è legata allo sguardo di chi passando si lascia catturare. I rapporti falliscono … perché abbiamo smesso di immaginare dice James Hillman (in La forza del carattere). E Annamaria non smette di immaginare, rilancia sulla relazione e fa rivivere il segreto dei volti dipinti, lo coglie nella vibrazione silenziosa che si propaga da quei corpi e precipita nella sua esperienza di donna e di artista. I percorsi si sovrappongono, si confondono. L’arbitrio regna sovrano. Ma non c’è ricostruzione biografica o filologica che possa creare quella verità di cui solo la parola poetica si fa portatrice.

Con Trittici l’incontro tra le due arti genera un terzo vertice, una tridimensionalità nata necessaria da quel bisogno di circolarità, contiguità tra le forme del dire, del fare, dell’essere. La ricerca delle co-incidenze, tanto cara ad Annamaria, la natura visionaria dell’impasto verbo visivo  si esprimono nel dono e nel rischio di quel testo poetico che espande le primitive istanze in una dimensione imprevista. Il terzo vertice è saldo appoggio a un nuovo possibile piano mitopoietico.

Le donne di Cristina Bove, Antonio Laglia, Amedeo Modigliani, gli autoritratti di Frida Kahlo sopravvivono al loro autore. L’intenzionalità dell’artista è quasi sempre ipotesi remota, ma la loro vitalità si riaccende nelle storie di nuove donne, nuovi esseri umani che con loro si relazionano in un rapporto di complicità quasi animale, come fa Annamaria Ferramosca.

Il tradimento è rivelazione.

La dislocazione è rischio necessario per non appassire sui territori friabili che la critica di mestiere o la poesia d’occasione hanno già troppo a lungo dissodato.

Le donne in cornice, per bocca di Annamaria parlano e raccontano ciò che le donne reali forse non hanno detto mai: pudore, vergogna, desideri, rassegnazione, forse solo per impossibilità di dire, o incapacità di capire.

O forse sono solo fantasie, vere anche se irreali, come sono veri i romanzi che danno un nome alle cose della vita.

E poi nulla è più come prima.

È un biglietto di sola andata.

 

Maria Teresa Ciammaruconi

Febbraio 2016