Rivista Gradiva, n.47 Spring 2015

 

Annamaria Ferramosca, Ciclica, Milano, La Vita Felice, pp. 96, euro 13,00

 

A quindici anni esatti dall’esordio de Il versante vero (1999), quest’ultima, densa raccolta di Annamaria Ferra­mosca sembra insieme inseguire le ul­time, temprate fioriture d’ispirazione – e tentare al contempo un primo, inopinato e insondabile bilancio d’esperienza, ap­prodo e anelito stesso espressivo: «scavo a mani nude negli angoli / avida dietro vite minuscole / sul fondo la finitezza che disàncora».

Tempo fa parlavo con Annamaria proprio della sua volontaria rinuncia alla punteggiatura, sostituita dal sem­plice uso degli spazi bianchi, delle ce­sure strofiche (al massimo, il conforto brioso delle parentesi, meglio ancora l’inciso che è ponte, equazione, gnosi tra due lineette). Restano però quei quattro spazi che surrogano la virgola, o meglio ancora, sembrano dirla, intonarla tacen­dola – come scansione musicale, estro­versa sillabazione che parte interiore, e poi solfeggia editti, rifonda i fluidi, salati e ondosi decretali dell’anima: «riflessa da acqua viva / anche la roccia as-sentiva / nella sua cecità sazia di luce».

Annamaria Ferramosca ha il corag­gio pieno e fervido di cavalcare come un’amazzone fuori del tempo il travaglio esatto – né pavido né eroico, semmai turbato, alienato – della propria epochè: e in questo non elude né concede oblìo a nessun tema scottante di quelli che c’inseguono, ci dannano, ci guatano come i veri demoni della nostra Scrittu­ra… «La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice» intonava l’umorale, ma pur sempre loico Montale di Satura – «Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C’è chi sopravvive».

Amo allora ammirare e periziare, in questa poesia, una sorta di appassionata, elegante atarassìa, una neutralità impla-cabile, pacifista ma egualmente armata. Armata di linguaggio, accanita e forbita di ogni etica della Parola: «noi immo­bili di pietra e pietas / – lapidità senza rassegnazione – / di fronte a un segretis­simo mare»… Ciclica è valle e roccaforte, declivio e cittadella inespugnabile. Dove si parla una lingua «contaminata e metic­cia» – annota Manuel Cohen – «esposta ai venti di novità, al ‘soffio multilingue’, tra geologia e biologia, tra techne e an­gelezza».

Quanta ardua geometria, architettu­ra dello spirito per riaggregare questo piccolo ma continuo, sussultorio e on­dulatorio sciame sismico di discrepanze ed emozioni, Porte di terra e Curve di li-vello, Canti della prossimità e soprattut­to Il versante vero, talvolta indicibile, «o solo una semidirezione», di Altri Segni, Altri Cerchi, «Non-luoghi», «mappe di salvezza», «urti gentili”, balconi «a con­solare / in lingua di menta e geranio».

Qui la poesia si sente libera perché nasce libera – più nessuno la deve libe-rare, incoronare di meriti esterni. «mai più riproducibile o seriale / questa lin­gua vorrebbe solo articolare / bellezza tornare alla prima neve / all’origine sillabica del fiume / puro occhio». La amplificazione è sempre un gesto, uno sguardo, il piglio giusto che ci accompa­gnano verso il futuro, perché è il futuro, invece, che ci accompagna, ci è sempre amico e compagno, diario incarnato, av­verato: come avviene con Ciclica… Testo mai provvisorio e mai definitivo, un fiero e fertile in progress che diffida insomma sia del Versante Ufficiale che di quello Vero (chi l’ha detto che sempre coin­cidano?): «restandomi nella voce – irri­mediabili – / i segni del contagio e della cura».

Plinio Perilli