Recensione di M.Grazia Calandrone
Le Curve di livello di Annamaria Ferramosca sono scarti di rotta, improvvisi cambi di direzione e di linguaggio, che vira dal dettato stregonesco all’esattezza meticolosa della scienza. Sotto queste poesie balugina e canta la terra di Puglia con le sue tarante e il suo vino, le sue pietre e i suoi ulivi, un sangue che mescola ribollendo i mari, le sabbie desertiche e le maiuscole, sebbene il periodo nuovo segua a un periodo concluso senza punto. L’autrice infatti è sempre in transito e sempre in punto di ricominciare da una lettera adulta, è la viaggiatrice che saluta per sempre la sua valle nell’Ottava elegia di Rilke (quella che parla dell’Aperto che gli animali vedono e che gli amanti per un soffio sono vicini a intendere ma l’altro ahimé è una figurazione invadente del mondo e il mondo sempre li prevale con la sua legge d’incessante commiato) e per questo ne elenca dapprima nello sguardo gli elementi terracquei, gli animali che abitano la movimentata fonderia dell’Occidente salita fino all’onda d’Irlanda. In questo agitatissimo calderone mondano c’è il ragazzo caduto dalla moto senza casco, la prostituta nigeriana con la forza di un idolo, la notte bianca sulla scena rutilante della notte di Roma. Tutto, a partire da un nucleo caldo di dentro, ha a che fare col mondo che chiama da fuori, con la sua guerra e la sua sventura umana e naturale. Camminando in questa terra di parole incontriamo la Maria della passione portata a spalla dall’effimero umano, il ritaglio di cronaca nera che sconfina nel mito della Dafne e la benedizione panica di Eva che ha trasgredito, se questa trasgressione mette al mondo la nascita, la compiutezza che incanta della vecchiaia, anche quel branco lunare di poeti che ascolta l’oltresuono del silenzio nel mezzo del discorso, anche la fanciulla che si stacca dall’anfora per mostrarsi di notte al bevitore di sotto l’altra ombra della vite. Incontriamo la voce della pianta, che nelle stanze successive parla della propria fuoriuscita da terra come fiume verticale che flotta in direzione delle vene del corpo, le quali lo hanno da contenere con letizia. Si dice che le vene devono restare chiuse, devono proteggere il giro lento del sangue e aggiungere al sangue il frangiflutti benedicente del riso.
Nel volume di questa donna le donne si muovono incontro a tutto: il grembiule di Nena, Ines, Katia / colmo di materia stellare / zampillava di storie terrestri. C’è una saggezza femminile che ha molto a che vedere con la natura e che viene continuamente nominata di sguincio, senza enfasi, con l’umiltà di chi più nulla ha da dimostrare e poco scandalo da dichiarare, come l’improvviso incontro ormonale con la fanciulla dal sorriso leonardesco al Palazzo dei Domenicani. Ogni volume qui si avvia alla conclusione su un orizzonte circolare e sintetico come le cose dette accanto al fuoco con parole essenziali come un pigolìo, forse le ultime, quelle del controcanto nel dialogo estremo tra l’autrice e la parola alla quale occorre fare spazio, che si affama con la mutaggine affinché si sveli e si pesca dal fondo degli oceani – la parola che come i semi della mela di Eva canta sempre il suo inno alla vita.
Chiudiamo il libro avendo attraversato la densità di un’esperienza certamente adulta, pagine nelle quali si assume su di sé il tempo e il suo portato di scenari con energia e leggerezza e che hanno dietro l’eco della grande poesia, da Leopardi a Saffo al già citato Rilke. L’animale-poesia di queste pagine volge spesso l’espressione del muso a una onnivora ironia, quando adopera un linguaggio da marketing poche pagine prima della lirica levissima di Sandro Penna, come a dire che il mondo è tutto commestibile per chi lavora a tradurlo e a restituirlo combinato in parole nell’ampolla di un libro.
Maria Grazia Calandrone riv. La Mosca di Milano, n. 15, dic.2006