Recensione di Alessandra Paganardi per riv. Il Segnale

 

ANNAMARIA FERRAMOSCA, Ciclica, La Vita Felice, 2014   su riv. Il Segnale, n.100, 2015, pp.84-85;

«Il viaggio finisce qui», esordiva Montale nel bellissimo testo Casa sul mare. Era l’avvio di una poetica sospesa su equilibri difficili, fra il simbolismo e il disincanto. Il Novecento poetico – e gli anni che vanno seguendo – debbono molto a questo clima, nell’accettazione come nel rifiuto. Il libro di Annamaria Ferramosca sembra alludere, per titolo e struttura, a un viaggio destinato a non finire, ma a riproporsi fuori e dentro il testo, alla ricerca incessante e mai appagata di soluzioni nuove, di nuovi sguardi.

Antonio Devicienti l’ha ben espresso in un saggio apparso di recente sul blog cartesensibili: al pari della spirale e di altre figure sinusoidali di forte impatto simbolico (pensiamo anche al titolo del precedente libro, Curve di livello) questa nuova opera di Annamaria allude continuamente al fluire della vita. Suggestivamente, infatti, le quattro sezioni sono in un rapporto di stretta continuità e sembrano dialogare l’una con l’altra (il dialogo, del resto, è un’altra figura molto presente, come ricorda la stessa autrice in nota): la prima, “Techne”, parte dallo spunto del rapporto con la comunicazione telematica, ma è come se l’autrice già aprisse lo schermo sugli errori ed orrori del mondo, di quello occidentale in particolare, e per tutto il libro non lo chiudesse più. Il mondo entra nel libro con la stessa forza con cui il libro, nello scrupolo di comunicare con un linguaggio profondo, eppure mai criptico, entra nel mondo: una delle parole-chiave, espresse o alluse, che si potrebbero adottare come esempio è “contaminazione”, “contagio”. «Noi siamo gli altri», direbbe Lacan: la poesia stessa, per essere autentica, deve assumere una nuova prospettiva (globale e non meramente solipsistico/ aritmetica) dell’io, il coraggio di mescolarsi al mondo, come già insegna l’esperienza dell’amore: «allora assorbo tutto/ mito endorfine contagio/ di febbre vagabonda/ tento ritento il volo/ (o almeno un frullo d’ali» (p.73-74, dall’ultima sezione “Ciclica”).

La vita è spreco, dépense secondo la famosa definizione di Bataille, poiché – ben lo sanno i biologi come Ferramosca – essa nasce sul paradosso dell’eccesso: al massimo dell’esuberanza corrisponde il massimo della perdita, cioè l’entropia. Ecco perché, d’altra parte, le leggi della tecnocrazia produttiva non potranno mai spiegare né la vita, né i fenomeni ad essa correlati, come la stessa economia: per comprendere occorre un altro sguardo, certo non in contraddizione con la scienza, ma capace di ri-accogliere lo stupore quale dimensione imprescindibile dalla conoscenza: «polline  a folate/ in microtestuggini anciate/ su lacune d’immunità/ – pianto di congiuntive urticate -// ma i granuli non sanno di ferire/ restano inermi intatti per millenni// che grande spreco se solo un infinitesimo/ plana d’orgasmo nell’utero esatto/ come se al pittore distratto/ tutto quel giallo a fiumi/ colasse fuori dal quadro…» (p.64, dalla sezione “Urti gentili”). Uno sguardo, potremmo dire, adeguato a un’identità poetica meticciata, accogliente, aperta alla realtà e pronta a lasciarsene attraversare: “un’anima pezzata”, direbbe il poeta Giancarlo Maiorino. Occorre cioè «un’altra scienza della vita/ penetrare la pasta segreta/ dei pensieri quotidiani degli urti/ vita che invade invisibile i corpi/ lingua molecolare che parla/ a impalpabili stelle» (pag.14, dalla sezione “Techne”).

L’autrice affronta così, con pochi tocchi simbolici e semantici che continuamente si richiamano, la grave questione del sud come parte offesa del mondo, vittima non certo di un destino necessario, ma di una visione collettiva gretta e parziale: su questa consapevolezza s’innesta un’utopia possibile, che è prima di tutto capacità di reindirizzamento dell’occhio e della voce: «quando festeggeremo ogni latitudine/ come fosse per noi terrarifugio   nuda/ con nude parole in cerchio/» (pagg.56-57). Compito della poesia, certo, non è prescrivere soluzioni; piuttosto esprimerle senza dare giudizi, con la forza del linguaggio, che in Ferramosca diventa parola nuova, spesso composta, un neologismo ricco ed efficace che prende vita nel testo: “urtoaroma, gridoghiaccio,cantocammino”, “Terrantartide”, che è addirittura il titolo di un testo (a pag.81), solo per fare alcuni esempi. Tradurre il mondo , come scrive l’autrice, significa questo: creare una lingua nuova, non per mero sperimentalismo, ma perché mancano le parole per dire una realtà in continuo cambiamento.

Ciclicamente, a spirali o in cerchi, il linguaggio può quindi retroagire sul mondo e cambiarlo, dopo esserne stato consapevolmente cambiato. Soltanto lasciandosi ferire, praticando quello che Marìa Zambrano chiama “conoscenza carnale del mondo”, gli urti della realtà diventeranno “gentili”: non soltanto sopportabili per noi, ma soprattutto in grado di in-segnare ad altre persone – soprattutto alle giovani generazioni – una via; un modo diverso e veramente umano, anche attraverso la poesia, di saper-vivere insieme.

 

Alessandra Paganardi