Recensione di Francesco Tomada per  riv. L’Almanacco del Ramo d’oro di Gabriella Musetti

Gioca immediatamente a carte scoperte Annamaria Ferramosca nei primi versi di Ciclica: “Scelgo mi piace e condivido / soltanto se / la posa non è teatrale” è già una dichiarazione di intenti, una necessità di comunicazione vera, profonda, che si rivolge ai valori e non alle apparenze, “dimmi se chiami per conoscermi o solo / per riconoscerti”, dimmi che cosa cerchi e perché lo cerchi. Non è un rifiuto della contemporaneità, tutt’altro, anzi la lingua di Annamaria Ferramosca la fa propria, conia neologismi, utilizza il linguaggio dei social network e dei files, ma proprio grazie a quella lingua così attuale esprime il rifiuto della frammentazione in bisogni secondari, preferendo piuttosto decomporre tutte le domande in unità-base, avanzare per capire a piccoli passi, in modo da cogliere frammenti della sostanza primigenia da cui siamo costituiti, cercare “nel mosaico la mia tessera /di terra cruda”, consapevole di seguire “le vie del dis-incanto che / vorrebbe dal caos ritornare stupore”.

Nella ricerca, umana prima che poetica, di Annamaria Ferramosca non c’è la presunzione di poter insegnare un percorso (“inutile dire chi scrive vede di più / ha solo più dubbi”), forse piuttosto l’esempio che può essere portato è tutto nel coraggio di perdersi, cercare qualche semidirezione, qualche resto di certezza che possa essere ripulito dalle incrostazioni che derivano dall’overdose di valori in modo da poter essere colto nella sua pienezza; una operazione di scriminatura e selezione che può risultare anche pericolosa quando scopre il vuoto, evidenziando “l’isola disperata che siamo”. Eppure, come la stessa autrice dichiara nelle sue note finali, queste poesie nascono dall’impronta chiara di una insofferenza che chiede d’essere placata, e dunque si tratta di un passaggio eticamente necessario, “sii migliore del tuo tempo dicono”; allora l’unica possibilità è cercare un’identità per ri-nominarsi, alienarsi per poi rinascere come il bambino della poesia Adozione: “qui le radici / da qui muovere il cammino”.

Forte è in Annamaria Ferramosca la consapevolezza che la crescita è prima di tutto individuale, ma richiede l’incontro con l’altro, i gesti di vicinanza e solidarietà, secondo una morale che più che cattolica è umana e universale, così come evidente è il bisogno di trovare un equilibrio con la natura; non si tratta però di un sentimento buonista, quanto della necessità di ritrovare un tempo che si plachi e segua i ritmi che appartengono al mondo intero. Non a caso le ultime due sezioni della raccolta si chiamano Urti gentili e Ciclica, la prima maggiormente incentrata sui contatti che nel con-vivere possono, appunto, diventare urti gentili, mentre la seconda evidenzia come anche noi siamo, dobbiamo essere parte di una spirale che tutto e tutti avvolge.

Ci sono alcune parole-chiave nella raccolta, sono snodi, pietre angolari, e una fra queste è probabilmente “fiducia”, che consiste nel gesto di riannodarsi, fare in modo che le vite si possano trovare e almeno per un attimo legarsi fra loro. “Mi perdo nel tuo sguardo / sostegno e precipizio” non è quindi l’atto di chiusura in un privato che taglia fuori il mondo, ma il movimento di chi rifonda, ricomincia non dalle certezze (“sostegno e precipizio”, appunto) ma quantomeno da quei valori che possono diventare condivisi, e momenti di conforto nell’attimo in cui si piange “per troppa voglia di tradurre il mondo”, quando la condizione di precarietà umana sembra prendere il sopravvento.

Annamaria Ferramosca si tiene lontana dal rischio di sembrare didattica e didascalica: non esistono risposte ma le domande sono indispensabili, non esistono lezioni da dare, esiste invece la percezione – che deriva dal vivere la spiritualità con sguardo disarmato, quasi con un approccio di osservazione scientifica – di appartenere a qualcosa di più grande, che si rinnova e si ritrova. “Così i fallimenti possono mutare / in categorie di seduzione”, così nell’ultima sezione le poesie assumono una struttura a volte ripetitiva, così in alcuni testi si affaccia la consapevolezza del tempo che scorre e porta verso la morte. Eppure “ora è la nostra ora” ed è questa la nostra condanna-fortuna, tocca a noi adesso assestare le fondamenta “da cui spiccare il volo / nella chiarità o nell’abisso?”; che sia chiarità o abisso non possiamo prevederlo ma forse non è neppure così necessario saperlo, forse il senso è prima, nel gesto dello “spiccare il volo”.