Recensione di Marco Furia​

 

I Trittici di Annamaria Ferramosca di Marco Furia

 

Una parola-immagine

 

Con “Trittici-Il segno e la parola”, Annamaria Ferramosca presenta equilibrate sequenze poetiche la cui originale attitudine all’evocazione trae spunto dai dipinti di quattro artisti (Modigliani, Kahlo, Bove, Laglia).

Il tema dell’immagine, come indica il sottotitolo, è assiduamente presente: di più, direi che si mostra sempre attuale nel suo iconico apparire.

Una poetica attualità, costruita con sottili, efficaci, allusioni, con messinscene brevi e incisive, con esatte parole mai dimentiche delle illimitate dimensioni dei mondi ai quali si riferiscono, una poetica attualità – dicevo – emerge per via di peculiari ritmi in grado di attirare il lettore con il loro discorsivo svolgersi: la versificazione della nostra poetessa non è mai lontana, poiché per lei la figura, come la parola, è espressione di contingenze esistenziali.

Lo stile, certo, distingue i singoli artisti, ma qualcosa d’intimamente vivido li unisce, qualcosa che abita lo spazio-tempo dei dipinti, qualcosa di cui l’autrice ci vuole rendere partecipi, consapevole di come la normale comunicazione incontri, talvolta, ostacoli superabili soltanto ricorrendo all’idioma poetico.

Così, accanto a pronunce descrittive di non comune immediatezza espressiva (cito, ad esempio:

 

“sempre ti sposo    sempre

sul fondale di letto nuziale

sono da poco sveglia e ancora

non mi abbandona il sogno    mi vesto”),

 

incontriamo sorprendenti, non estranee, fisionomie:

 

“inspiro la tua vernice lunare

da narici africane

mentre tenti di de-finirmi”.

 

Non mancano, poi, acute riflessioni sul linguaggio

 

(“movenze inaudite sul palco

e silenzi

il mimo ha una parola perfetta”),

 

né fanno difetto sequenze nel cui àmbito dimensioni differenti tendono a dialogare tra loro.

Si noti, a tale proposito, quest’enigmatica sequenza:

“il sogno è un muro bianco

che mi separa da me stessa”.

Vivere in immagini-parole mi pare tratto fondante di una scrittura che, non propensa, almeno nel caso di “Trittico”, ad affidarsi al saggio, consegna ai versi il compito di mostrare l’illuminarsi d’inattesi, inediti, significati.

Il tutto con la compostezza linguistica propria di chi sa bene come certe esperienze possano essere trasmesse unicamente per via di suggerimenti, evocazioni, metafore, che trovano in una specifica misura non soltanto la migliore forma espressiva, ma anche la stessa ragione d’essere.

Un invito rivolto a indurci a partecipare, a nostra volta, in maniera nuova (e feconda)?

Mi pare sia questo l’intento di Annamaria.