Recensione Donato Di Stasi
Intimità e estraneità della soglia-Note su Porte/Doors (poesie 1999-2001) di Annamaria Ferramosca
Versione inglese di Anamarìa Crowe Serrano e Riccardo Duranti
Edizioni del Leone 2002
Urta.
Urta per sempre.
Nell’invidia della soglia.
Contro la porta, sigillata,
Contro la frase, vuota.
Nel ferro, ridestando
Solo questa parola, il ferro.
Nel linguaggio, nero.
Yves Bonnefoy
- La pertinace vitalità della “vera contemporanea poesia” (Leopardi) non consiste nel parlare di noi, ma che un principio, il Linguaggio o l’Essere, parli dentro di noi. Porte/Doors si svolge interamente nel Teatro della Parola con le sue avanzate, le regressioni, i varchi, gli sbarramenti, i riti di rispecchiamento e le frustrazioni della decadenza.
È più difficile essere poeti nella modernità, ma più appassionante e Annamaria Ferramosca deve a questa passione la capacità di sedule riflessioni (“Se è vero/che la parola vera nasce dal silenzio/voglio tacere” pag. 83), la perspicacia di tenere sospesa la scrittura fra significazione e evento (“Devi dirmi/se afferri se afferri il senso o soltanto/ lo tiri per i capelli” pag. 81).
Porte/Doors reclama per sé il paradigma della metamorfosi: dirige lo sguardo sul paesaggio e coglie nell’esperienza lirica un’irraggiante morfologia naturale (“Dalla radice alla gemma apicale/si viaggia in vortice,/dilatando l’ascolto in foglie alterne” pag. 33); nello stesso tempo rovescia gli occhi all’indietro verso l’interiorità adombrando una meditazione orfica sulla morte, ravvisabile nel simbolismo ancestrale della tomba (“Forse sapevi che t’avrei scoperto/fratello dauno/nei tuoi cerchi d’ossa/estrema offerta di canto al cielo- cranio al centro-pietra/votiva, purissima/materia d’uomo in solitudine essenziale” pag. 73).
Porte/Doors progredisce attraverso una serie di riti apotropaici, elevando la poesia a potente farmaco per emancipare il soggetto dal timor historiae (lo scoprirsi morente figlio del nulla), esiziale al pari del medievale timor dei. La disillusione storica, la consapevolezza che il massificazionismo si alimenta della stessa malattia ontologica che la poesia non lesinerebbe di guarire, non piega la volontà dell’Autrice a ostentare provocatoriamente e perdutamente una qualche voce da oracolo per una ritrovata umanità (“Parlare come/vivere con-dividere/ritmi segreti di qualche dio dei simboli/vibrazioni protette fino a un termine/dove la voce sarà oltremusica/pura illimite” pag. 13).
L’intento di Annamaria Ferramosca è di trasporre la cronaca sofferta del mondo in una più desiderabile sfera poetica, dove liberare eventi e fenomeni dalla loro sorte di declino entropico. La trasposizione lirica comporta effetti memoranti: si tratta di un bisogno di possesso della vita che solo la scrittura, attraverso i suoi movimenti metaforici può assicurare (“Parola ti dilata incanti e stelle/Così mi segui. Il sogno è un Librocielo/noi sotto un planetario di manoscritti” pag. 45).
Porte/Doors prova che di essenziale all’individuo rimane il linguaggio, il quale distingue la muta passività dal dialogo operoso con la realtà: la poesia trasforma l’esprimersi in comunicare e accresce il sentimento della vita senza schermi fintamente consolatorî . Un senso di libertà intellettuale tesaurizzato nell’iniziativa di un inusitato testo a fronte in inglese, affidato a Anamarìa Crowe Serrano e a Riccardo Duranti, come indice di ulteriore slargamento del proprio orizzonte propositivo. Dalla creazione letteraria dobbiamo pretendere la precisione del giudizio, le gioie che esistono, la ribellione al canaio delle chiacchiere, il rifiuto dell’afasia dello spirito, la spinta avversa alla mercificazione del dolore (“Urlo nel tuo silenzio, taccio/nel tuo grido” pag. 83)
- 2. L’essenza di Porte/Doors riposa sull’ossimoro romanticismo scientifico. Agisce nei testi una calcolata sentimentalità che cataloga le cose e le vivifica, per esempio i reperti di epoche remote (la civiltà egizia del “Lamento del faraone”). I versi rendono conto di esistenze minerali, vegetali, animali, renitenti a essere annichilite, irriducibili a configurarsi come mero sfondo dell’umano. La dottrina dell’appassionamento verso il mondo (“la cura” di Heidegger) assomma un ritrovato senso di solidarietà fra individui a un’autentica riscoperta della naturalità (“In verità la amiamo, la materia terrestre/senza riserve…//e ci stringiamo…alla materia/che da sempre ci stringe” pag. 17).
Le composizioni restituiscono lunghissimi affetti e brevi ma goduti pensieri: lo streben faustiano, la tensione romantica verso l’assoluto, si stempera nella razionalità delle immagini, chiamando a sostegno tutelare Einstein (“…con Energia E uguale/a ciquadroEmme” pag. 17).
Porte/Doors assolve al compito di intellettualizzare la vita, senza però cadere nella sterilità tautologica dei concetti: è una prova di resistenza alla sazietà del banale e all’adiposità dell’ignoranza.
- Annamaria Ferramosca non ha scelto una metafora privata, benché il titolo lo lasci presagire, né ha inteso ristagnare nei modi del petrarchismo o del catastrofismo poetico (i due mali supremi dello scrittorismo odierno). Senza intenti prescrittivi o pedagogici, indica le condizioni possibili di moralità delle percezioni, dei gesti, delle mediazioni che nascono nel luogo transitorio per eccellenza: la soglia, dove la disposizione della coscienza si determina come eminentemente socializzante nel riconoscimento e nell’accettazione dell’Altro. La soglia è arte del ricordo, ma anche rimpianto di effimeri passaggi: ora brulicante di vita, ora deserta e cadente. Inutile sottolineare che tutto questo serve magnificamente l’allegoria della vita:“I vetri spalancati un mattino/inconsapevoli/d’aprire la casa a un’area sacra”. (pag. 77) Il meccanismo che sorregge i cardini delle porte respinge la tristezza del paesaggio esterno in frantumi, all’interno accoglie la silenziosa contemplazione che si dipana nelle pagine come ininterrotta confessione pubblica (“O mia gente/ci parliamo senza parlarci/da minime distanze” pag. 55). Soccorre qui la distinzione fra individualismo e individualità: il primo termine rimanda all’etimo latino in-dividuum, colui che non divide il mondo che abita con gli altri, il rinunciante, l’uomo che basta a se stesso e infrange perpetuamente la seconda formulazione dell’imperativo categorico kantiano, trattando l’umanità come un mezzo per i propri fini, leciti o illeciti; il secondo termine allude alle relazioni tra gli uomini, alla ricchezza delle esperienze singole orientate all’esercizio reciproco della libertà. Annamaria Ferramosca lavora a togliere ogni cosa e ogni destino da una condizione pesante e materiale di solitudine: conduce a sentire il non detto, a sciogliere l’enigma della realtà, quando gli accadimenti si inchiavardano in un cuneo oscuro (“Dopo lo sperpero dei segni, dopo/la purificazione delle stanze, spenta/l’ultima scintilla sullo schermo/soltanto pietre/da interrogare” pag 83).
Al centro della cartografia di Porte/Doors è un paysage moralisé, archetipo di ogni condizione esistenziale, perché si impone come il primo contatto con la Madre, la Terra-Corpo con le sue implicazioni cosmologiche e teogoniche. La forte carica unitaria e ri-generativa del libro scaturisce dall’ideologia carnale che si combina con la dialettica spirituale, una stupefacente ierofania: l’estraneità viene respinta nell’egoismo e nella mediocrità, mentre l’intimità autorizza la distensione, la ri-germinata familiarità con l’esistenza pluralizzata su differenti piani linguistici (“Così mi vedo terra e madre e musica/Sono di pietra eppure volo/stringendovi la mano ad uno ad uno” pag. 27).
Le porte e le soglie sono i luoghi più rumorosi e più silenziosi che una scrittrice possa scegliere, varchi verso la bellezza e l’orrore, testimoni di mistero e svelature epifaniche, crocevia di contingenza e universalità. Annamaria Ferramosca rimane lì a difendere il suo privilegio e la sua condanna di osservatrice-abitatrice della vita.
- Porte/Doors è diviso in quattro sezioni, che si distendono in un progresso dialettico, continuo e pacificato, compatto nel dettato ritmico-melodico, incline a esaltare il valore fonico delle parole. Il tono diffusamente intellettuale dispone i testi a illuminarsi di improvvise accensioni liriche ( “col passo del respiro/verso il tuo punto noctilucente di deriva” pag. 53).
La sezione di apertura, Sotto l’unica luna, si incentra sulla categoria di Spazio secondo un asse della verticalità, applicato al registro linguistico alto-basso (convivono la sinestesia “odore di grida” a pag. 21 e il più prosaico “ghiande” a pag.19). Si attesta la condizione di anabasi e catabasi continue
negli avvenimenti che occorrono, e per questo vibrano “di segrete metafore” (pag. 17). Il senso di elevazione ideale e il terrore di precipitare nella volgarità portano a una condizione trasumanante: “chiamatemi seme di mare sull’abisso” (pag. 37), “l’universo offerto delle note/brusio di angeli sopra Berlino” (pag. 13).
Nella seconda sezione, Chiavi di un Librocielo le composizioni, dall’andamento strofico piuttosto libero, sono organizzate secondo l’asse dell’orizzontalità e la coppia antitetica aperto/chiuso.
Si contempla il darsi della poesia nella fluidità aperta dell’esistere, mentre le zone d’ombra, gli spazi non decifrabili, rimangono disomogenei e alieni dalla mente che non riesce a definire per loro un canone interpretativo rassicurante (“E giustamente tu ora mostri i denti/alla volpe braccata nel sentiero/delle Parole, fino alla sua gabbia/Impossibile snidarla, impossibile/anestetizzarla” pag.43).
Da soglie empatiche, la terza sezione, rappresenta la più convinta asserzione di poetica da parte dell’Autrice. Organizzate secondo l’asse della prospettività (vicino/lontano), le parole assumono una tensione inaudita e il lettore vi trova composizioni che si imprimono saldamente nel ricordo. Una sezione compatta, dove aspetti temporali accidentali e necessari si immergono nella “notte profonda della conoscenza” (Breton) per riportare alla luce l’essenza del mondo. Annamaria Ferramosca non indietreggia mai, né teme di toccare la sostanza quasi terrena dello spirito, concepito modernamente come divenire trascendentale, superando la stasi di troppa poesia platonizzante, ferma al contemplativo imperturbabile. Quando l’infinito si invera nel finito, le possibilità di comprensione vengono affidate al registro ironico (anch’esso di derivazione romantica):”animule larvate al petrolio/policiclici idrocarburi aromatici/riconoscibili dallo spettro di riga/(giungono in riga/le grida degli spettri)”. (pag.65)
Gettarsi nel buio, scavare, scontrarsi con l’assenza di luce risulta il solo modo per verificare se l’oltre che perseguiamo è unico, o ve ne sono innumerevoli altri a confondere e complicare la conoscenza dell’altro da sé.
Porte/Doors si chiude con Battenti, il canto della Memoria e delle Occasioni: qui vale la dimensione di circolarità secondo la disposizione simile/dissimile. Lo spazio metrico, valorizzante e affettivo, si converte in Cronaca per chiudere la sua procedura di storicizzazione con il ritorno all’epos mito-logico: “Corro auriga di Delfi/sul mio carro di nubi/senza clangore/guadagno rive multiple/Non ho briglie né mani/Imperdonabili/solo terra e luce” (pag.113)
La poesia di Annamaria Ferramosca manifesta il vantaggio della dynamis, non teme di sporcare le ali dell’albatros baudelairiano nella polvere del mutamento. Questa mitopoiesi muove e commuove, evita la finta chiarezza di sé, senza coscienza. Qualsiasi porta attraversi l’Autrice, non fa che porre interrogativi alla Sfinge: nel dubbio matura una disperata vitalità, che si lancia con gridi di parole verso la realtà.
- Se una forte ragione unitaria (l’incontro io-mondo) anima la scrittura di Annamaria Ferramosca, bisogna rintracciare la spia linguistica dove tutto questo si deposita. Non si ha difficoltà a rinvenire il paradigma della univerbazione, il processo di giustapposizione fonica e semantica di parole diverse. Cito alcuni esempi: d’incantidisincanti, coppacapannatumulo, oltremusica, lunadiboscolunadisavana, musicanerabianca. Come dire che Porte/Doors è stato pensato per raccogliere energie contro la disgregazione delle coscienze e la loro dispersione nei mille rivoli dell’egoismo.
L’uso di prefissi illativi (in-sacra, in-foglia, in-scena, im-metabolizzabile) conferma il perimetro reciprocante di pensiero e emozione, nel senso che il primo contatto con le cose avviene sempre per tramite concettuale-deduttivo, poi sensibile, in un personale rovesciamento dell’empirismo.
In Porte/Doors non troviamo fratture formali o stilistiche, nessun urto o dissonanza, ma sicurezza, solidità, compiutezza formale. Nelle prose critiche Attenzioni del 1980 Seamus Heaney intraprendeva la sua nékuya, la sua discesa negli strati successivi del suolo, fino alle viscere più riposte e arcane, ma avvertite per stranezza d’intuizione come familiari. Attraverso la poesia faceva risalire questi reperti alla vita, rinnovandola: un’operazione simile avvia Annamaria Ferramosca, scrittrice pervasiva e lettrice onnivora (Yeats, Celan, Dickinson, e chissà quanti altri), capace di creare una sua lingua interiore con la quale porre un sigillo al dolore del tempo e alla speranza dello spazio, varcando soglie che portano a quelle radici che oggi, per una bizzarria dei costumi, si fa a gara a ignorare.
Donato Di Stasi (saggio inedito)
Nereidi, 73esimo giorno dell’estate