Contributo di Annamaria Ferramosca per LucaniArt

Contributo di Annamaria Ferramosca per la rubrica di Maria Pina Ciancio su LucaniArt sul tema :

Scrivere è un atto solitario, intimo e privato. Ci vuoi raccontare che significato ha per te la parola scritta e come vivi il rapporto della scrittura con “l’altro” e con il mondo esterno?

Scrivere un atto solitario, intimo, privato?   Forse non è del tutto vero, o almeno lo è durante i movimenti della mano sul foglio, quando la levissima sostanza poetica piove dai neuroni e annerisce la carta. Ma pensa al prima, il prima misteriosissimo. Dove si origina la parola?  La parola è un magma indescrivibile di voci, un suono polifonico, non può essere il risultato di una monade nella sua essenza solitaria, perchè nella sua infinita capacità creativa vedi rivelarsi la moltitudine.

Voci, voci, e ancora voci, in infiniti toni e suggestioni, ti si affollano intorno. Tu non fai che ascoltare, cercare nel brusio il verso-visione che ogni volta una voce che sovrasta le altre ti fa giungere. E quando la raccogli e traduci dall’invisibile cercando di portarla nel dicibile, ecco che pensi: bello essere in tanti, insieme, tanti a voler dire, ancora! Tanti, che hanno nome o sono senza nome. Sono le voci di familiari, anche degli avi, o sono le vocidi amici, di oggi o di ieri, che finalmente dicono quel che avrebbero voluto dirti in presenza, ma riescono a confidarti solo ora, mentre scrivi, come in un tempo che è  fuori dal tempo, qualcosa di essenziale e memorabile. Oppure sono le voci dei poeti passati che hai ammirato o che ammiri, viventi ma distanti, che avviano, anche loro malgrado, un inatteso dialogo con te. E poi, non le senti le voci dal mito? Sono le più armoniche, le più vicine a quell’eden perduto, e pure all’abisso, che ancora in noi risuona e a tratti affiora dal nostro io più profondo.  E a volte è così difficile districare una sola voce nella sua cristallina purezza, nel suo urgente desiderio di trasmettere senso, dalla folla sonora che lancia messaggi dall’altrove.

E pure, lo sai, chi scrive non è mai solo perchè sta guardando fuori dalla finestra, quella reale, concreta, che si apre sul cortile e mostra una parte della palazzina di fronte, uno scorcio di strada tra le alberature, passanti frettolosi, insomma il mondo fuori che non sai se è reale o irreale, oppure chi scrive sta guardando da una metaforica finestra che si apre su un mondo altro, abitato anch’esso da entità sottili che… non fanno che bussare ai vetri. Per dire. Per rivelare. Chi scrive sopravvive per questa ansia serena di ascolto dell’ ”altro”. L’altro è anche quel magnifico parlante che è l’animale, l’erba, la pietra. L’”altro” ha voce tra quelle che si sono in un mio testo autodefinite infravoci, suoni-simboliviventi-messaggi dalla natura, anche da quella presunta inerte, come acqua, vento, roccia, fondale marino… voci che hanno trapassato i tempi geologici e continuano, con la loro insondabile intelligenza, a soffiare indicazioni, soluzioni…

Poi mi rendo conto di scrivere per essere ascoltata. Ascoltata e compresa da chiunque parli la mia lingua, sebbene sconnessa. Vi sono donne e uomini di ogni età intorno a me, che in massima parte non hanno granchè voglia di leggere o ascoltare, accostandosi alla strana, ancora fortemente irrisa, dimensione della poesia. Eppure più che la poesia oggi dovrebbe apparire strana, se non quasi aliena, la dimensione che stiamo vivendo e sempre più assimilando, avviati come siamo verso questa mutazione antropologica innescata dalla tecnologia e dal virtuale. Sento e tremo. E il mio sentire è forse anche un presentimento di cose tristi. Vedo l’umanità dominata dalla corsa al profitto, dalla velocità, vedo aumentare la distanza e l’insolidarietà  tra gli individui, farsi largo l’omologazione che impoverisce linguaggio e identità, vedo l’indifferenza verso l’idea di una vita con più giustizia e meno sofferenza per tutti, e insieme il permanere, malgrado qualche insufficiente misura, della violenza sulla natura. Mi sento disarmata, anche delle armi sublimi che sono le parole, ma. Ma continuo a ricordare quel che diceva il poeta Adam Zagajeswski(scomparso nel 2021), rifiutando, di fronte a ogni deriva, la reazione di immobilità, di sconfitta impotente: “Quel che noi poeti possiamo fare è continuare a dilatare la nostra percezione del mondo” . Solo su questa riflessione riesco ad addormentarmi ogni notte, pensando che ai poeti non resta che acuire l’ascolto del fuori di sé e pure del sé profondo e dell’invisibile.

Così mando a memoria i versi colmi di senso di Zagajewski, dal suo libro Dalla vita degli oggetti, versi  che ho voluto mettere in epigrafe nella prima sezione del libro Per segni accesi (Ladolfi Editore 2021):

 

                          Eppure sento il sibilare della prima neve,

                         la delicata melodia della luce del giorno

                         e il cupo brontolio della metropoli.

                        Bevo da una piccola fonte,

                       la mia sete è più grande dell’oceano.

 

 

Annamaria Ferramosca, 26 aprile 2023