Annamaria Ferramosca — Intervento per l’incontro seminariale sulla poesia di Puglia – Lecce, 12 maggio 2023, Libreria Milella (organizzatori Lino Angiuli e Carlo Augieri )
Il mio intenso grazie a Carlo Augieri e Lino Angiuli per l’invito a far parte di questo cerchio di autori della mia terra d’origine, con cui sono felice di contribuire a creare una consonanza di voci che mi auguro possa sedimentare nel ricordo di chi leggerà il racconto del nostro percorso.
Decido allora di ricostruire il mio cammino in poesia seguendo una modalità che sento molto efficace, lasciando cioè parlare a tratti, lungo il racconto, i testi poetici che sappiamo sono in grado di esprimere più intensamente di qualsiasi metadiscorso ogni passo del percorso, ogni ricerca ed evoluzione di tematiche, linguaggio, stile.
Comincio col dire che in me l’urgenza della poesia si è manifestata verso i 18 anni, sebbene si fosse autopreparata a lungo, senza che ne fossi consapevole, fin dall’infanzia, quando ascoltavo incantata brani omerici dalla voce di mio padre o bevevo la magia di antichi “cunti”, anche in in rima, raccontati a noi bambini da anziane contadine. Poi, durante l’adolescenza, mentre frequentavo il liceo classico, cominciarono anche i primi tentativi di scrittura in versi, con la scoperta della metrica e del piacere di poter dar corpo al mio mondo visionario maneggiando la parola, piegandola alla necessità ritmica del verso. Intanto leggevo e divoravo poesia di autori italianoi e stranieri, fuori dall’ambito scolastico, e laddove mi permettevano le mie competenze linguistiche, cercavo di leggere anche il testo originale a fronte. In seguito, mentre studiavo all’Università una materia scientifica, Biologia, che pure mi affascinava, con tremore cominciai a scrivere, come per una sfida con me stessa e una misteriosa gara con i poeti che ammiravo, per scoprire se, sia pure in minima misura, sarei stata capace di creare qualcosa di intenso e armonico, di esprimere quel che sentivo con sufficiente efficacia comuncativa. Questo esercizio, che mi sfibrava e insieme rendeva felice, è durato nell’ombra per circa trent’anni. Poi, fortemente incoraggiata dal poeta romano Plinio Perilli, mi decisi a pubblicare il mio libro d’esordio, Il Versante Vero (Fermenti, 2009), che mi valse il Premio Opera Prima Aldo Contini Bonacossi. In questa raccolta prevalgono già i temi dell’incontro largo, del cerchio arcaico, della libertà da ogni costrizione, del valore della parola, che avrei sviluppato nelle successive raccolte. Tematiche in parte collegate alla mia origine Salentina, alla mitica Messapia-terra-tra-due-mari, che mi richiama voci ancestrali di genti arcaiche, quelle che hanno lasciato graffiti a Porto Badisco, e di genti cretesi, illiriche e di altre rive del Mediterraneo, venute nella mia terra a scambiare e vivere. Ho respirato accenti della Grecìa Salentina, dove ancora i vecchi parlano in grico. La mia terra mi ha insegnato a sentirmi felicemente e ogogliosamente ibrida, mediterranea prima che europea. E nel testo che ascolterete ora, emerge il significato di quel taràn, antico termine che, al di là degli aspetti antropologici e folclorici, esprime il senso di un moto vorticoso, danza misterica legata al mito del labirinto e alla ricerca del sé ancestrale, svelamento d’essere pura energia. Una danza in cui la musica battente richiama il ritmo cardiaco vitale e il farsi in cerchio dice il bisogno umano costante di solidarietà collettiva [leggere il testo 1: La piazza delle vinte tarantole]. Compaiono nel libro anche altri temi destinati a svilupparsi nelle successive raccolte, come l’ascolto delle voci dal passato e dal mito, le voci dell’infanzia e della natura, insieme al timore per l’avanzare del dominio tecno-economico. Il libro sorprese per prima me per i numerosi positivi consensi espressi da critici quali Donato Valli, Giuseppe Pontiggia, Silvana Folliero, Donato Di Stasi , Fabio Simonelli (riv. Poesia). Era l’alba del Duemila, lavoravo a Roma come insegnante di Biologia nei Licei e contemporaneamente non smettevo di leggere poesia di autori passati e contemporanei, mescolando senza ordine Saffo e Lorca, Kavafis e Caproni, Rosselli e Pizarnick, Borges e Dickinson e così via. Partecipavo agli incontri nella Stanza della Poesia della Casa Internazionale delle Donne, dove vigeva la massima libertà di scelta della poesia da ascoltare e indagare, ma non ho mai fatto parte, per scelta, di gruppi che seguissero canoni o regole imposte, di avanguardie varie etc. Ero molto interessata però ad ascoltare ogni voce, per cogliere, nelle pieghe tra visionarietà e forma, da qualsiasi versante provenisse, il perturbante, la capacità evocativa e memorabilità del testo, e soprattutto il senso dell’umano farsi riconoscibile dalle maglie di ogni linguaggio. Di sicuro la grande varietà di voci ascoltate e lette creavano in me strani meccanismi di rielaborazione e fertilizzazione dell’immaginario, che lavoravano – e continuano a lavorare- per una sempre rinnovata energia creativa.
Nel 2002 avviene l’incontro, sfociato poi in una lunghissima amicizia, con la poetessa irlandese Anamaría Crowe Serrano, che traduce la mia raccolta Porte/Doors (Edizioni Del Leone, prefazione di Paolo Ruffilli), incontro che mi port a dilatare l’orizzone visionario e formale, con la percezione di una mia più salda libertà intellettuale, per cui vedo la mia scrittura assumere una cifra personale riconoscibile, sempre al di fuori di linee della poesia italiana d’allora (minimalismo, orfismo, post sperimentalismo,etc.). Si fortificano nella mia scrittura i nessi e dialoghi tra interiorità e contemporaneità e si conferma la spontanea immissione nel lessico di termini stranieri e dalla scienza.[leggere i testi 2 Parlare come nascere e 3 Policiclici Idrocarburi Aromatici].
Con Anamaría C. Serrano pubblichiamo nel 2006 per Empiria una raccolta a quattro mani, dual poems in strofe alterne bilingui, Paso Doble, in cui, partendo da sponde linguistiche opposte, con la mia amica poetessa e traduttrice ho felicemente dialogato in poesia, scambiando visioni e conquistando nuove inattese consapevolezze.
Con Curve di livello, Marsilio 2006, uscito nella collana elleffe a cura del poeta Cesare Ruffato, posso forse dire che la mia scrittura cominciò ad essere un po’notata dal pubblico italiano della poesia e dalla critica, anche per i numerosi riconoscimenti e recensioni critiche.ottenute. Rileggendo queste mie pagine le avverto ora come destinati passi di un percorso, in cui mi soffermo spesso sulla centralità della parola poetica come nodo insostituibile di comunicazione e limpido incontro umano. Ed emergono non solo il ritorno alle origini, con la riscoperta di vari archetipi e la dimensione di mediterraneità, ma anche tutta la complessità del villaggio globale contemporaneoin evoluzione, una specie di geografia reale e spirituale in cui tutti possano riconoscersi. [leggere i testi 4 Mediterraneo, e 5 Curve di livello] .
Forte è sempre la componente mitica volta a”traghettare il tempo” nel presente, recuperando il continuum della vicenda umana, e insieme, attraverso una nuova mitopoiesi, riconoscere nuove figure e vicende che emergono dai contemporanei conflitti etnici, religiosi e della globalizzazione. Sul versante formale, oltre l’ibridazione con lessico straniero e a volte dialettale, è costante il lavoro sul ritmo e sulla sua fusione con le risonanze aspre della contemporaneità. Non ceserò poi di ringraziare il destino che mi ha riservato incontri con persone esemplari, che considero maestri – poeti di grande generosità e apertura – i cui preziosi suggerimenti continuo a seguire. Alcuni scomparsi, come Donato Valli, Cesare Ruffato, Gianmario Lucini, e il mecenate poeta ed editore Alfredo de Palchi, cui devo la pubblicazione nel 2009 del volume di Poesie scelte, anche inedite, Other Signs, Other Circles nella collana Italian Contemporary Poets in Translation di Chelsea Editions, N.Y. Due sono gli spunti di novità formale in questa scrittura, come dichiarano anche i poeti e critici Maria Grazia Calandrone e Manuel Cohen:l’assorbire nel lessico termini dalla lingua della tecnologia, dalla scienza e da internet per comprendere tutta la rete comunicativa che mi avvolge, e il coniare neologismi personalissimi come i termini polifusi. Si tratta di termini che spontaneamente si creano mentre scrivo e si impongono, con la fusione di due parole. Usati con la dovuta misura, essi dilatano di molto la possibilità di scelta lessicale, conferendo alla lingua nuovi inattesi esiti sonori, per la più stretta contiguità di certe aperture vocaliche e consonanze, esiti diversi rispetto a quelli prodotti dai due termini separati. Appare consolidato anche il non uso della punteggiatura, che sento interferire con quel legame sottile che pure permane tra le parti lessicali e che virgole e punti vorrebbero annullare (modalità seguita già da Adriano Spatola, Saramago, Stefano Guglielmin, Francesco Marotta, Eliza Macadan, e altri). Preferisco lasciare 4 spazi per segnalare la breve pausa nel respiro del verso, al posto della virgola.
Dopo la pubblicazione del volume monografico La Poesia Anima Mundi (Puntoacapo, 2011) contenente la silloge Canti della prossimità, ho molto riflettuto sul cammino e sul senso della mia scrittura, trovando rivelatorio il discorso che il curatore Gianmario Lucini ha fatto sulla mia poetica dall’esordio fino al 2011, ma che trovo tuttora validissimo. La prima e vera osservazione di Lucini è che non sono una poetessa “sistematica”, bensì “tematica”, nel senso che “in ogni raccolta ogni testo può stare anche da solo e non perde nulla se viene astratto dal contesto, in cui il tema di fondo resta unitario” Qui è pure confermata la mia costante ispirativa che affida alla poesia il ruolo di veicolo per una profonda comprensione tra gli umani, nel rispetto reciproco delle culture, compreso il recupero del femminile, che pure ha dominato in lunghissimi tempi arcaici. E il simbolo ricorrente del cerchio, presente già nelle precedenti raccolte, è il segno che scelgo come costante della protezione umana reciproca e dello scambio, ma anche come traccia sacra che indica la necessaria ricomposizione dell’equilibrio da noi interrotto con e nella natura. Un tentativo di recuperare una civiltà della poesia, forse utopica, che sento derivare da una saggezza materna della terra, volta a superare ogni spigolosità, ogni urto.[leggere testi 6 Curve saranno le città e 7 Infravoci].
Con il libro Ciclica (la Vita Felice, 2014), che considero la prima fase di un trittico che comprenderà le successive raccolte Andare per salti (Arcipelagoitaca, 2017) e Per segni accesi (Ladolfi, 2021, introduzione di M.Grazia Calandrone), la mia visione poetica dilata ancora, aprendosi alla naturale evoluzione data dall’urto con le mie esperienze della vita e i moti della contemporaneità. Vi è anche un più insistente rivolgersi alla dimensione dell’oltre e un nebuloso pensiero pre-veggente delle numerose derive umane e planetarie, che porta ad una nuova più forte urgenza del dire, in una forma che sento più adeguata ad esprimere luci, oscurità e ansie del mondo.[leggere i testi 8 Urti gentili e 9 Pagine per voltare pagina].
Così mentre nella vita proseguo con la mia attività di biologa, contemporaneamente continuo il lavoro redazionale nel portale Poesia2punto0 per il quale curo per molti anni la rubrica da me fondata “Poesia Condivisa”. Un lavoro molto gratificante per il fertile scambio di visioni e umori contemporaneie dibattito con i lettori, che mi spinge verso la considerazione di un senso ultimo della vita, dicendo del nostro effimero viaggio, degli errori dell’homo divenuto insipiens e della nostra solitudine. Eppure restano residue speranze in possibili inversioni di rotta, che provengono soprattutto dalle chiare voci dell’infanzia. E forse questo continuo Andare per salti che dice dell’insofferenza del quotidiano, è anche il deviare dalla visione ordinaria verso vie più nascoste, meno battute, per poter guardare il mondo sotto altra luce. “Forse cosa saranno le città future, lo dovranno dire i poeti”, mi conferma in una mail il poeta Sebastiano Aglieco.[leggere testi 10 Zoom su tutte le città ferite a morte]
E l’andare in poesia è continuo cercare segni che s’accendono chiedendo d’essere intercettati e trascritti. Il libro Per segni accesi li coglie partendo dalle origini ancestrali della vita, attraversa il mistero della nascita e poi tutta l’inspiegabilità del mondo, dove l’ascolto dell’innocenza bambina e dell’intelligenza delle entità naturali può compiere una ricomposizione, progettare una possibile “vita da riscrivere”. E questa nostra postmodernità ipertecnologica, con il suo seguito inquietante di economicismo e indifferenza verso l’altro, irrompe spesso nelle pagine, trovando il muro resistente dei miti, luci senza tempo che emergono in poesia come grida nella notte, illuminando inediti orizzonti. Si fa largo una “tregua dal disumano”, ancora una volta attraverso la parola poetica che fa cerchio, congiungendo ogni entità,vivente e non vivente, in un’unità di fondo che vedo come territorio sacro. Per dire tutto questo ho sentito la mia lingua piegarsi ancor più verso le fusioni verbali, forse inconsce metafore grafiche dell’incontro desiderato, più evocative e cariche di nuove armoniche.[leggere 11 Prima dell’ultimo buio e 12 Ma se il cavallo di Troia].
Ora, nel 2023, mi vedo in cammino verso l’arco finale e quasi per un misterioso invertirsi dell’immaginario che vorrebbe ritornare alla nudità da ogni sovrastruttura, a quell’infanzia in cui già mi ponevo le grandi domande esistenziali, mi accade di scrivere come in un flusso ininterrotto di coscienza le pagine del mio ultimo libro Luoghi sospesi (Puntoacapo, 2023), dove domina il dubbio sulla veridicità dell’esistenza: di me che guardo trascorrere il mondo o di chi – esseri e cose del fuori – è oggetto del mio sguardo. E’ questa una scrittura diversa da quella di ogni mio precedente libro, con un andamento che ho definito”recitativo in 5 stanze sull’ambiguità del reale”, che prende corpo tra osservazioni scientifiche e pensieri filosofici e non senza ironia verso ogni essere umano e pure divino, che mai riesce a illuminare di senso l’enigma del nostro esistere. Domande che restano sospese, fuori dal tempo, come tuoni che rimbombano in una solitudine che apparirebbe assoluta, se non fosse interrotta da incursioni di brani lirici, come voci di un coro che vorrebbero indicare soluzioni di senso. Credo che di fronte alle derive del mondo, forse solo la parola poetica dà l’illusione di una vita vera e dunque lascio che cada sulla carta come testimonianza di un desiderio, E vedo quindi che alla fine il mio resta sempre un dialogare con l’altro, l’altro dal coro che interloquisce, una strana voce che proviene dal mito? dal divino? dal cosmo?, che tenta di squarciare l’enigma. Voce che avrà pure un’essenza, se ora ne sto parlando con voi, che spero esistiate. Per ascoltare, per condividere.[leggere testo 13 forse è nel sentire il senso] .
Testo 1 da Il Versante Vero, Fermenti 1999
La piazza delle vinte tarantole
Abbiamo altre parole questa notte:
un corpo musicale,
a vendicare il tempo
passato senza fuochi
Abbiamo l’alba
che batte su pelli tese in sarabanda,
furore d’argento sugli olivi,
fino al mare – l’eco
ingelosisce le grotte –
Piedi
a scandire colpi d’amore sulla terra
E tuoni
a dissipare tutte le aracnitudini
In piazza l’aria
è disegnata di spade con le braccia
Le ragazze scintillano la terra
dove ballano
Volano i cerchi delle gonne alla luna
S’incendiano i tamburi. Fino a sangue
(A sciogliere i cani ritmici, all’unisono,
si sfianca la paura)
* E’ una piazza del Salento, (Puglia) dove nelle notti d’estate il suono dei tamburellisti coinvolge la popolazione in un antico ballo liberatorio per tutta la notte.
testi 2 e 3 da Porte/Doors, Edizioni del Leone, 2002
Parlare come nascere
Voce che inseguo da più notti invano
Ne so bene l’attesa
e l’urto lancinante e l’onda
propagata lungo le strade a nord del cuore
Arriva
ed è squillo di bimba :
– Noi siamo come un violino, vero ?
Le parole
volano come la musica dalla bocca
e la lingua è l’archetto…
Ma se piango,
il legno del mio violino è come
un ramo sotto la pioggia?
Parlare come
nascere agli altri, ogni volta
venire
alla luce – bianca – dove
bianchezza è l’universo offerto delle note
brusio d’angeli sopra Berlino
sopra le regioni
fuori dal dubbio fuori dagli equivoci
Così i bambini parlano impastando la terra
col minimo dolore necessario
Parlare come
vivere con-dividere
ritmi segreti di qualche dio dei simboli
vibrazioni protette fino a un termine
dove la voce sarà oltremusica
pura illimite
si lascerà
talking about – parlar di tutto
whispering – sussurrare
missing – annullare, perfino
(rumore di rugiada nella notte)
Domani, domani, quando?
Oggi piove
sopra il legno dei rami
Una sola parola
può uccidere, ancora
Una nota
far tacere un violino
**
Policiclici idrocarburi aromatici
E non sapevo di scoprire amici
Antichi,
nel sotterraneo andare
aspirando
piccole grida di benzene
tra scie inerti d’azoto
Il poeta sa riconoscere – si dice –
il senso riposto delle cose
Ma queste sono voci
di cellule remote, dissepolte
da mari antichi
animule larvate di petrolio
policiclici idrocarburi aromatici
riconoscibili
dallo spettro di riga
(giungono in riga
le grida degli spettri)
Chiedono
la loro antica pace subcrostale
o solo mescolarsi
– polvere nel respiro –
farsi nostro corpo
aderendo perfino
alla suola delle scarpe
compagni, un passo dopo l’altro
al nostro viaggio d’impolverimento
Unirci
tutti questi occhi primordiali
E’ il mare antico
comune abbraccio nello smarrimento
testi 4 e 5 da “Curve di livello” Marsilio, collana Elleffe, 2006
Mediterraneo
Marina Serra. Assalto
di un’alba nitida, capace
di spingere i monti d’Albania
fin qui, sotto il balcone
Posso toccarli quasi
fianchi verdi e radici
intrecciate alle mie
Da costa a costa
scintillano di senso le correnti
lu rusciu de lu mare
canta in mediterraneo
Potevo essere nata su quei monti
e mia madre avermi lavata nel canale d’Otranto
nutrita con zuppa d’alghe e filastrocche di Lushnje
potevo trovarmi in quella barca
così traboccante di speranza
che i fianchi non reggevano al rimorso
Mi trovo in quella barca, sono
albanese, pure
messapicagrecaegizialibica
il mio sangue è incontro d’onde
paziente e antico
( continua a mescolare
questo inascoltato mare )
**
Curve di livello
Sebbene la mia carta sia disposta
col margine superiore volto a nord
non ritrovo né oriente né occidente
La carta sembra ormai dis-orientata
Nulla, della fissità cartografica, tranne
un’attitudine incerta, tremula
resistenza alla deriva
Ondeggiano le isoipse – eppure sono sobria –
scosse, come su di una faglia in atto
si slacciano i punti dalle linee
non più obbedienti all’ordine
– tutti in riga, allo stesso livello sul mare –
Una nuova linea si ricompone, lucida
s’allunga, veloce
saetta sulla carta, la perfora
transfuga scia di luce vola
sul nostro cerchio, lieve
ci tocca in fronte, in petto
Allineati, ci stringiamo le mani
bruciamo di limpida invasione
Fugge, caricata di luce, pellegrina
dei continenti. Si ricercano
punti – allo stesso – livello – d’amore
testi 6 e 7 da La Poesia Anima Mundi, puntoacapo, 2011
curve saranno le città
“Cammino e dietro camminano le stelle”
Adonis
e nel cammino mi guardo indietro
a cercare tracce di passi siderali
afferrare code lucenti di conversazioni
sulla nuca ho il peso del cielo
specchio d’assenza in terra
solchi fioriti d’acciaiosangue
solo un poeta a tradurre
il brusio stellare
segui le luci le luciparole
al fondo degli sguardi
stringi di bende l’immane ferita
sia l’ultima emostasi sui confini
nei deserti nelle città
nella tua casa
e nel cammino vedo allontanarsi
i muri dell’enigma
file di pietre a secco disporsi
ai miei fianchi – nessun cemento imposto –
per un giardino condiviso
sulla pietra luciparole incise
rispondere alla notte
**
infravoci
lungo la marcia abbandonate a valle
parole opache di città
galleggiano le vive, torrentizie
nell’odore di muschio i grandi temi
ridursi a domande minime a silenzio
il nostro vuoto è voragine
in verità vorremmo noi risarcire
alberi e pietre per il grande zero
di verbosenso
– il loro è tuono, di fronte a un balbettio –
questa dis-lingua che solo sa asserire
non penetra
il nodo siliceo, il chiaro di linfa
non traduce
la vena d’acqua che riga la terra
la curva dei rovi verso il sole
la perfezione lenta dello scarabeo
infravoci
( le foto svelano
retrosorrisi di foglia, leonardeschi )
voci incompatibili con il cumulo d’angoscia
che deborda dagli zaini, destinate
ad essere soltanto interpretate
per questo amate, per questo essere mute
vi offro ogni mio smunto colore
ogni mio grado termico ogni onda
in cambio imbrattatemi di polline i capelli
fatemi ramo spuntone di roccia
spirito di capriolo sul dirupo
Testi 8 e 9 da Ciclica, La Vita Felice, 2014
urti gentili
mi manca la lingua mi manca
quella timidezza di vocali aperte
di zeta dolce nel grazie
un incurvarsi della voce in gola
come a piegarla fossero le pietre
salentine del ricordo o forse
una malinconia residua della nascita
ingorgo che resiste
allo sperpero del vivere
furore dei cieli di una volta
grida bianche dei dolmen che insistono
nel vedere il mattino sorgere
sulle rovine ogni volta
qualunque sia l’inclinazione della luce
mi manca quella strana paura
prima di ogni viaggio
come un sottile rifiuto della distanza
come di albero che impone alle radici
un limite all’espandersi e si concentra
sulla cura dei frutti
pure amo
tutto questo calpestio di genti nella città
l’impasto lento di animelingue
il rompersi dei meridiani l’inarcarsi dei ponti per
urti gentili
questo annodarci annodando
i cesti della fiducia con antiche dita
**
pagine ancora per voltare pagina
ancora
un sangue abbiamo consapevole
di voler coagulare come fosse troppo nobile
per l’uscita selvaggia dalla vena
umori fertili abbiamo
che premono sulla fioritura
e profili aggraziati a chiamare
la tenerezza degli urti le gratitudini
abbiamo sulla fronte un rogo che fa paura
ma nell’aggrottare appaiono onde
un oceano che trascina
il mio corrimano di legno tentativi di ponti
capre e pastori erranti (hanno il nostro profilo)
pani tastiere reti
incastrate tra rami di olivo e note di sassofono
e — a ondate — pagine
immarcescibili (la voce come di un’alba o di un vagito)
pagine ancora
per voltare pagina
testo10 da Andare per salti, Arcipelago Itaca, 2017
zoom su tutte le città ferite a morte
nella polvere scompaiono le scene come fossero
bagliori di una notte mai trascorsa
se mi abbracci anche una sola volta
la guerra scompare
abbracciati fuggiamo dagli scannatoi
da chi sogna di farsi cadavere tra cadaveri
abbracciati fuggiamo dall’empietà
di riportare i corpi nel buio della prenascita
dal video le nostre immagini siamo
confusi abitanti del caos
boia e animali sacrificali
mentre il fiotto soffoca il respiro
dei boschi dei nidi
di ciò che resta delle case
dove avevamo in mente di ritornare
come spiegheremo ai figli l’allarme ininterrotto
se non sotto una maschera di vergogna?
chi ritirerà la posta dalle cassette
mentre le arance rotolano dal cesto?
Testi 11 e 12 da Per segni accesi, Ladolfi 2021
prima dell’ultimo buio
primache si ripeta il disincontro
voglio abitare l’ultima foresta
respirare
desiderio di luce che s’avvera
in ogni foglia
senza che l’una mai sia d’ombra all’altra
ecco lo sento fibrillare in petto
quel canto sciamano un filo invisibile
lega i viventi a terra e cielo
appartiene allo spirito delle acque
tutto ciò che scorre sacro è il flusso
del fiume così di linfa e sangue
voglio abitare la mia tecnocittà
fiera di nuovissimi assetti e pure inquieta
saranno innocui gli oggetti che comunicano?
le tecnopareti sensibili ai richiami?
ecco lo sento fibrillare in petto
chiaro il desiderio vorremmo
case che ci proteggano da noi stessi
noi fiere in agguato
vorremmo inermi convivere
tra urti gentili e stupore ininterrotti
fino all’ultima meraviglia mai descritta
in gioia poi poterla raccontare
**
ma se il cavallo di Troia è un animale favoloso
– mi chiede la bambina –
se è magico e ha capito l’inganno
perché non lo svela ai troiani
perché se ne sta immobile sotto le mura
e non nitrisce forte
d’avere il ventre gonfio di malefici
perché non galoppa verso il mare e s’inabissa?
domanda che mi denuda mi catapulta
in un tempo bianco dove
il sogno semplicemente s’avvera
dove con le parole solo con le parole
la ricomposizione
dove accadono cose piccole e buone
briciole
che delicatamente la bimba dispone in terra
lungo la fila delle formiche
testo 13 da Luoghi sospesi, Puntoacapo 2023, collana Altre Scritture, nota di Elio Grasso
forse è nel sentire il senso?
sentire benevolenza salire dalla terra
sentire come largo l’amore scorre
come plasma corpomenteparola
come emoziona perfino l’acqua e l’aria
come muove la pietra
sentire prossimità in ogni creatura
sentire il suo sfolgorio il suo declino
sentire tutta la mite materia terrestre
ogni volta rinascere mite
e tu sentirti il nativo
appena uscito dalla foresta
ne conservi il profumo
pallido nell’attesa incredulo
serrati gli occhi a fermare
all’orizzonte
tutto quell’oro che lampeggia