Recensione di Antonio Devicienti
LINGUAGGIO CRISTALLINO E COMPLESSITÀ DI TEMI, PASSATO REMOTO ED URGENZE DEL PRESENTE IN “CURVE DI LIVELLO” DI ANNAMARIA FERRAMOSCA.
Il linguaggio cristallino che caratterizza la poesia di Annamaria Ferramosca è approdo di un voler dire contenuti a volte anche affioranti dall’inconscio personale e collettivo, quindi all’origine magmatici e sfuggenti. A questo allude il titolo della silloge, preso in prestito dalla pratica cartografica, in quanto qui la poesia cerca di congiungere i diversi livelli dell’esperienza individuale e collettiva; al contempo c’è un discendere negli inferi (nel senso di regioni sotterranee) del nostro passato e della nostra preistoria e un risalire verso il presente anche più tragico o infame. Interlocutrice talvolta esplicitata è la pratica poetica, compagna e voce in dialogo continuo con la poetessa. Annamaria Ferramosca attraversa con lo scandaglio di una misurata, musicalissima dizione lirica e meditativa, con un sistema conoscitivo dunque quale il linguaggio può anche essere, i territori della nostra identità e le stratificazioni di tali territori.
Il libro è tripartito (Ho visto corpi e terre; Ferite, suture; Al margine dei fuochi) in maniera perfetta (16 componimenti nella prima e seconda sezione, 15 nella terza), calibratissimo come una partitura musicale, intriso di segni che sono sia quelli della scrittura che quelli emanati dal mondo e dall’uomo e, lo dico subito, percorrendone le pagine mi prenderò la libertà di citare e commentare anche testi non contenuti in questa silloge, in quanto essa accoglie in sé riverberi da altri lavori della poetessa salentina e su altri luoghi della poesia a sua volta si riverbera in un intreccio continuo e necessario (la maggior parte di tali citazioni sarà tratta da Other Signs, Other Circles, Poesie edite e inedite 1990-2009 in versione bilingue con introduzione e traduzione a cura di Anamaría Crowe Serrano, New York, Chelsea Editions, Collana “Contemporary Italian Poets in Translation”, 2009).
“Ancora siano i segni sulle rocce a dischiudere il tempo (………..) Ancora siano i segni sulle pagine a traghettare il tempo” (Ancora siano i segni, vv. 1 e 2, 20 e 21). Si comincia cantando di uomini e bisonti sotto un sole dipinti o graffiti sulla roccia – come accade a Porto Badisco, per esempio, nella Grotta Romanelli e in quella dei Cervi -, si accenna ad un dolmen che vibra al passaggio dei tir sulla vicina statale. Salento e Mediterraneo sono regioni in cui la stratificazione delle epoche e delle culture conduce ad una necessaria consapevolezza di tale accumulo e della compresenza di segni, tracce, memorie, per cui la pietra è pietra vivente, nel senso che conserva e restituisce una storia plurimillenaria, offre la possibilità di un viaggio traverso il tempo, reagisce al gesto che la interroga, allo sguardo che la scruta, si fa nostro presente. Non a caso anche René Char dialogava con le pitture di Lascaux, egli poeta capace di congiungere le rivoluzioni di Orione in mezzo a noi con l’inabissata sapienza di chi abitò le caverne, né dimentico Seamus Heaney o Tomas Tranströmer quando riflettono sugli uomini che lavorarono e morirono nelle torbiere della preistoria. Questo libro è allora anche un atlante di luoghi dove cercare e trovare la propria origine; a Marrakesh, per esempio: “Entro in Jemaa el Fna quasi cadendo sul fango secco rinnovando il parto del feto antico di me africana” (Piazza Jemaa el Fna, vv. 1-4) o in Irlanda dove si attua l’epifania di “una sibilla ignota, celtica ” (Blackrock, v.2): l’acqua. E se questa prima sezione del libro si apre con una citazione da J. L. Borges sul tema del giardino-pagina-memoria e la seconda con una da D. Walcott sul viaggio e sull’esilio, la terza sezione recherà in esergo le parole di S. Heaney che cantano di un uomo sul margine del campo che tiene in mano, rigido, una sega ad arco come fosse una lira; s’intuisce in trasparenza la forte presenza di Heaney in tutto il libro perché anche Annamaria Ferramosca, come il poeta irlandese, traendo ossigeno dalla tradizione che viene però sposata al concreto quotidiano, ne fa un portato di poesia tramite accostamenti inediti.
In un libro-atlante come il presente ci sono anche Cnosso con l’antica tauromachia, Creta ed un matrimonio ortodosso, una notte romana (una Roma vera Musa ispiratrice per molti poeti contemporanei: Ungaretti, Bellezza, Pecora, Bachmann, Cavalli, Rosselli, Calandrone, Buffoni, Grünbein…..) e poi quello che la poetessa stessa definisce il suo “luogo delle origini”, Marina Serra, località sul mare a pochi chilometri da Tricase, suo paese natale:
Mediterraneo
Marina Serra. Assalto
di un’alba nitida, capace
di spingere i monti d’Albania
fin qui, sotto il balcone
Posso toccarli quasi
fianchi verdi e radici
intrecciate alle mie
Da costa a costa
scintillano di senso le correnti
lu rusciu de lu mare
canta in mediterraneo
Potevo essere nata su quei monti
e mia madre avermi lavata nel canale d’Otranto
nutrita con zuppa d’alghe e filastrocche di Lushnje
potevo trovarmi in quella barca
così traboccante di speranza
che i fianchi non reggevano al rimorso
Mi trovo in quella barca, sono
albanese, pure
messapicagrecaegizialibica
il mio sangue è incontro d’onde
paziente e antico
( continua a mescolare
questo inascoltato mare )
È proprio così: nelle mattinate limpide, specialmente in primavera ed in estate, si vedono gli Acrocerauni salire a toccare il cielo, li si scorge da Otranto, da Castro, da Porto Badisco, si elevano dall’altra sponda del Canale d’Otranto, vicinissimi e pure, almeno fino alla fine degli anni Ottanta, lontanissimi. In quegli anni la Puglia era regione di confine, militarizzata (i jet da guerra violavano continuamente il silenzio del giorno con i loro motori dal suono lacerante, cattivo, violento), i radar scandagliavano incessanti il Canale; la radio captava trasmissioni e musiche in lingue incomprensibili, talvolta ascoltavo i notiziari in italiano o in francese di Radio Tirana: voci da un altro pianeta. Poi vennero gli anni delle navi stracariche di fuggiaschi dall’Albania, la banchina del porto di Otranto si riempì di profughi, i Salentini portavano viveri e vestiti a quei nuovi fratelli – poco dopo l’Italia avrebbe mostrato il suo volto razzista ed egoista. Giustamente Annamaria Ferramosca scrive “fianchi verdi e radici / intrecciate alle mie. / Da costa a costa / scintillano di senso le correnti / lu rusciu de lu mare / canta in mediterraneo” e sottolineo quello “scintillare di senso”, che è anche compito della poesia, far affiorare e illuminare di senso la storia, affondare fino alle radici comuni: Giorgio Castriota Skanderberg, l’eroe nazionale e il paladino dell’identità albanese, ebbe molti legami con la Puglia ed il Sud d’Italia, migliaia di Albanesi trovarono una nuova patria nel Mezzogiorno dopo la sua morte (straordinari i libri di Carmine Abate dedicati alla vita degli Arbëreshë, gli Albanesi d’Italia e illuminante il romanzo LA BARONESSA DELL’OLIVENTO, Milano, Camunia 1990 di Raffaele Nigro). Per questo motivo la poetessa salentina lega i due popoli tramite il verso di una canzone popolare salentina “lu rusciu de lu mare” (il suono, il mormorio del mare) e tramite il mare comune, il “mare tra le terre”. Ed aggiunge la consapevolezza che la nascita in una terra o in un’altra è un puro caso: lei stessa sarebbe potuta nascere sull’altra riva del Canale. In ogni caso, la poesia fa sì che ci si senta appartenenti al popolo che in quella barca cerca una vita diversa e ricorda le molteplici radici dei Salentini: discendenti dei Messapi, dei Greci, degli Egizi, dei Libici. In questo testo la poesia fa appello alla solidarietà reciproca e ricorda l’esistenza di una Patria delle Patrie, l’inascoltato mare”, il Mediterraneo (e varrebbe la pena tenere sempre con sé quale livre de chevet il BREVIARIO MEDITERRANEO di Predrag Matvejević). C’è un altro bellissimo componimento di Annamaria Ferramosca che torna sùbito alla memoria:
(Da Other Signs, Other Circles)
PAESEMONDO
Un paese che si chiama Cocumola è
come avere le mani sporche di farina
e un portoncino verde color limone.
Uomini con camicie silenziose
fanno un nodo al fazzoletto
per ricordarsi del cuore
Vittorio Bodini
ritorno pellegrina
a uno spazio d’equilibrio
sommerso di luce orientale
mia casa-paese protetta che protegge
senza recinti
attraversarla è penetrare
una calda coerenza
un racconto vivo che non si ferma
oltrepassa i muri
partire è lasciarsi dietro un mondo
le sentinelle accese su ogni soglia
non atterrisce nessuna terra dei giganti
flebile ogni canto di sirene
la nostra piazza è centro che dilata
cerchi di parole, urti semplici
a dipanare vita, tenere accesi i fuochi
quelle foto in cortile, da bambini
occhi neri vivissimi
frenesia di giochi mai interrotti
ai quattro cantoni del mondo
tatuata casa-paese che con noi cammina
ovunque, sotto l’unico cielo scritto dalle stelle
paesemondo
per vivere, con-vivere
In questa lirica si manifesta un’altra linea portante di molti testi di Annamaria Ferramosca: l’apertura al mondo e agli uomini partendo dalle proprie origini e dalla propria storia personale. Bodini, colui che anche grazie ai propri interessi culturali ha connesso (o, meglio, riconnesso) il Salento alla Spagna dà avvio alla riflessione della poetessa; in questo caso si deve pensare al Salento degli antichi borghi, i cui centri storici, d’impianto medievale e magnogreco, sono materni ventri accoglienti e protettivi; c’è sempre una piazza cui conducono le vie strette del paese, spesso al centro della piazza c’è una colonna su cui si erge il Patrono o la Patrona a proteggere dal male oppure un menhir, resto sopravvissuto dell’antichissima civiltà neolitica. Ma c’è, soprattutto, un paese poco visibile fatto di giardini nascosti dietro grandi portoni e di case a corte, tipica struttura architettonica di un’epoca in cui più famiglie appartenenti allo stesso ceppo vivevano insieme; col tempo nella corte si sono trovati a vivere nuclei familiari di differente provenienza, ma che hanno dato vita a quel rapporto solidale del “vicinato” (“ghetonìa” in griko), partecipe nel bene e nel male di ogni accadimento che riguardasse il singolo abitante della corte stessa. Per questo la poetessa può dire che “ritorno pellegrina / a uno spazio d’equilibrio / sommerso di luce orientale / mia casa-paese protetta che protegge / senza recinti”: è l’equilibrio tra io e noi, tra dentro e fuori, tra privato e pubblico. L’Oriente è poi assai presente in Terra d’Otranto, sia per la collocazione geografica che per la vocazione stessa di questa provincia; fino alla presa di Bisanzio da parte degli Ottomani il Salento ha avuto un interscambio quotidiano con la Grecia e i Balcani, è stato sia sede di colonie elleniche che provincia bizantina (questo spiega anche il sopravvivere di una zona ellenofona fino ai nostri giorni); dopo il 1453 ha fronteggiato gli assalti periodici degli Ottomani (e questo spiega la presenza dell’importante sistema di avvistamento delle torri costiere che sono una peculiarità del paesaggio marittimo salentino, oltre che l’arretramento di molti borghi rispetto al mare e la loro fortificazione). E c’è Oriente (in prevalenza Grecia) nel bianco della calce che riverbera da molte case antiche, nella presenza diffusa dei palmizi, nel lessico, nelle tradizioni (il Salento è stata solo fino a pochi anni fa terra in cui il canto funebre era ancora praticato). A proposito delle foto in cortile mi viene poi in mente il portfolio di Mario Giacomelli che negli anni Cinquanta fotografa le strade dei paesi pugliesi colme di persone e soprattutto di bambini che giocano – fino agli anni Settanta le strade dei paesi salentini erano piene di bambini e, le sere d’estate, gli adulti sedevano sul marciapiede davanti a casa chiacchierando fino a notte e godendo del fresco che almeno un po’ alleviava l’afa prepotente del giorno. Direi che questa lirica costituisca una dichiarazione d’amore per le proprie origini da parte della poetessa che vive a Roma dal 1970, la casa-mondo e il paese-mondo rimangono infatti “tatuati” sulla pelle dell’anima e non allontanano dagli altri, ma uniscono e conducono alla con-vivenza.
Sempre dal luogo delle origini muove un altro Leitmotiv che vivifica la poesia di Annamaria Ferramosca e che è già rintracciabile in un testo antecedente al libro che andiamo leggendo: La Piazza delle Vinte Tarantole, in IL VERSANTE VERO, Fermenti Editrice, 1999
Abbiamo altre parole questa notte:
un corpo musicale,
a vendicare il tempo
passato senza fuochi
Abbiamo l’alba
che batte su pelli tese in sarabanda,
furore d’argento sugli olivi,
fino al mare – l’eco
ingelosisce le grotte –
Piedi
a scandire colpi d’amore sulla terra
E tuoni
a dissipare tutte le aracnitudini
In piazza l’aria
è disegnata di spade con le braccia
Le ragazze scintillano la terra
dove ballano
Volano i cerchi delle gonne alla luna
S’incendiano i tamburi. Fino a sangue
(A sciogliere i cani ritmici, all’unisono,
si sfianca la paura)
In CURVE DI LIVELLO leggiamo:
Notte taranta
Anche se quell’aia è lontana
e l’eco dei tamburelli si perde
resta un’essenza ritmica di grano
l’impronta danzante di una mano
Anche se tutto il male di stelle
che doveva piovere è piovuto
la notte regala ancora lumi
fuochi fatui di timpani che ondeggiano
ancora note sul ciglio della morte
fiati sul collo della serpe
passi che sollevano ondate
sospingono il buio nella rete
Si sale inconsapevoli su fili
tesi tra terra e luna
già l’eco fossile canta
allo spazio la rivincita sul ragno
il pane ha battuto il ferro
il sangue rientrato in vena
In alto il nostro suono indelebile
oscilla quantica
l’offerta di una mano
. Entriamo così anche nella storia del tarantismo salentino, fenomeno estremamente complesso esposto oggi ad un melenso revival che ne falsa il senso profondo e la prospettiva storica e sociale, così come viene stravolta la tradizione musicale salentina, trasformata, almeno a livello massmediatico, in una moda facile ed accattivante. La poesia di Annamaria Ferramosca invita al contrario alla riflessione e alla problematizzazione: “abbiamo altre parole questa notte”, cioè ci raccontiamo usando un codice diverso e complementare che è la musica e la danza, o meglio, come scrive in modo pregnante e inoppugnabile la poetessa, un corpo musicale, perché è il corpo sofferente e danzante ad esprimere la sofferenza della mente; la tarantola, che secondo l’antichissima ancestrale credenza, ha inoculato il proprio veleno col “morso”, deve essere “vinta” tramite una terapia musicale e cromatica per cui la vittima del morso, una volta trovati la melodia ed il colore giusti, corrispondenti al “carattere” della tarantola, sarà spinta a danzare ed attraverso la danza si libererà del veleno, almeno fino all’anno successivo, quando la crisi si ripresenterà. La sofferenza dell’intera comunità, la sua esclusione e subalternità sociale e culturale trovano infatti espressione nella tarantata o nel tarantato che vive nella propria mente e nel proprio corpo questo stato di alienazione (che ha anche implicazioni sessuali e psicologiche) dal quale ci si libera o si cerca liberazione tramite i riti della danza ed eventualmente del pellegrinaggio sul finire di giugno a Galatina, alla cappella sconsacrata di San Paolo, il santo dei serpenti, l’unico che può “fare la grazia” della guarigione (vedi Brizio Montinaro, SAN PAOLO DEI SERPENTI, Palermo, Sellerio, 1996 e, ovviamente, gli ormai classici studi di Ernesto De Martino e di Diego Carpitella). Il quadro è molto complesso, come si vede e la poetessa adopera gli strumenti della metafora poetica per cantare un mondo ancestrale, che inesorabilmente si allontana da noi, emarginato, ripeto, ma dotato di un suo codice di simboli e di riti che, al di là della sofferenza indubitabile, connettono il tempo presente ad un passato remoto. Ed il Salento appartiene al ben più vasto mondo mediterraneo che Annamaria Ferramosca tratteggia nella sua opera anche suggestionata dai meravigliosi studi di Marija Gimbutas; ad esempio in
Grandi Madri di Malta
equivalenza dell’aspetto fertile del tempo/ a questa madre feliceobesa guardiana di Tarxien /curvilinea di abbracci / semplicità del corpo senza necessità di scrittura/ parola sazia sacrale /indicando la direzione morbida innocente /doni di granomiele e seme inarcano i fianchi/ il ventretempio imita il cielo/ le nove lune trascorrono/ in sonno largo di incontri/ madre dormiente in preascolto del vagito/ pure del nostro lamento”
O nel testo Un labirinto inciso in lineare B: “(…..) ci salva la donna dei gomitoli /(signora del labirinto/ con le sette stanze dello stupore/ nella sua cavità delle nascite/ offrirle un vaso ebbro di miele/ un grazie danzato tutti legati a un filo/ nel buio dei meandri chiaro s’avvolge/ si svolge irresistibile /uno scialle si agita nella danza del ragno/ Aracne annoda e snoda/la sua tela d’incontri” (Entrambe le citazioni provengono da Other Signs, Other Circles).
A questo punto introduco un altro grande tema che innerva il libro, ma anche tutto il cammino poetico di Annamaria Ferramosca, cioè il suo dire il mondo attraverso il proprio essere donna. Tengo però a precisare: la mia riflessione vuole prendere le distanze dalla, secondo me, stucchevole e sterile questione circa l’esistenza o meno di una “poesia femminile” e di una “poesia maschile” e di quali ne sarebbero le fantomatiche caratteristiche. In questo senso trovo approdo sicuro nella poesia stessa di Annamaria Ferramosca, la quale, con la naturalezza e l’apertura ad essa consuete, canta il mondo e dice della realtà (anche di quella più amara e tragica) impiegando ed affinando gli strumenti della propria soggettività che è anche (ma non solo) femminile, che non può non tenere conto anche del fatto che nel corpo femminile si genera e da esso viene alla luce la vita, cosa che, credo ovviamente, offre alla voce poetica una prospettiva peculiare di espressione. Aggiungerei poi la presenza forte di una consapevolezza e di un orgoglio del proprio essere donna che dànno un’ulteriore tonalità al discorso poetico che andiamo qui focalizzando; d’altronde, solo in un paese condizionato ancora da becero maschilismo e machismo si può usare l’espressione provincialissima di “poesia al femminile” – basterebbe leggere i libri di tantissime autrici per capire come la questione sia inconsistente e di quanto innovativa sia la loro proposta letteraria (e non solo), anzi capace di obbligare chiunque scriva in versi a riconsiderare temi, atteggiamenti, poetiche, scelte linguistiche.
Mi sembra inoltre che le linee di pensiero lungo cui si muove proprio il libro di Annamaria Ferramosca costringa a ripensare il proprio essere uomo (nel senso di maschio), a sottoporre a critica i portati di una tradizione e di un’educazione ricevuta. Leggiamo, allora, Forse con una donna:
Lasciarla far luce
con le sue lanterne, vigile
sulle alte mura trasparenti
lasciarla apparire e sparire
come lei vuole
dosare i richiami
perché possa appartarsi
in qualche sua giungla di luna
Forse con una donna
disperata di te, del tuo mondo
non serve dividere corone
meglio farsi esuli insieme
navigare con lei navicella lunare
approdare su placide ginecosfere
dove lei è dispensiera
di pane e parole
Forse con una donna
sentire più spesso stupore
che istupidimento, soprattutto
quando dalle macerie risorgono
lentamente i villaggi
illimpiditi dal pianto e lei
ricomincia a parlare alle rose
Forse con una donna
ridere insieme
della tua enfasi e imperfezione
lei complice custode
di pienezza e inquietudine
del riso e del pathos
che non debordi
nel suo patimento
Ti immerge
nella morbida offerta
tu colmo di lei le correnti
inverti al tuo mare, dissenti
dal banditore che eri
( ora più aperte sul mondo le porte )
Dall’invenzione stupefacente delle ginecosfere al sintagma “dispensiera / di pane e parole” (con quell’allitterazione che avvicina strettamente anche dal punto di vista fonico il pane e le parole), alla geniale affermazione “sentire più spesso stupore / che istupidimento” si legge e rilegge la lirica commossi dal canto di colei che custodisce (termine chiave, credo) la vita e la civiltà, la pace e il dialogo. La femminilità è dunque intelligenza ed amore che, inapparenti, sanno opporsi all’empito distruttivo del maschio e ne sanno domare la belluina ferocia. Nel testo Noi Etrusche scrive la poetessa: “da voi parole- pietra, telepatiche /perché lungo il tempo mai abbiamo smesso di parlarci fitto/ sul bordo di labbra in sorriso/ coprendovi lo sposo – lui convinto – /col braccio le spalle per il viaggio/ noi furtive e ironiche /abbiamo già solcato quel mare languido/ nella decisione che sarà più largo e pacifico/ e maternale tutto ciò che da aruspici abbiamo divinato/ l’attesa a noi si addice e la festa (…..)” (Da Other Signs, Other Circles). Strappa un sorriso di compatimento quello sposo – lui convinto – che, adagiato accanto alla sposa sul coperchio del sarcofago o dell’urna cineraria, le cinge sicuro di sé le spalle, mentre la verità è ben altra: sono queste donne, capaci di dialogare tra di loro attraverso i millenni, a difendere ed alimentare i fondamenti della civiltà, “furtive e ironiche”, e meglio non si poteva dire, specialmente pensando all’era lunghissima, che in molti casi e paesi si prolunga ancora fino a noi, in cui la donna è stata esclusa dalle decisioni della famiglia e della comunità, salvo poi essere capace con la pazienza ed il silenzio appresi nel tempo di perpetuarsi appunto custode della vita, qui intesa, ovviamente, non soltanto in senso biologico: “noi etrusche oggi, fianco a fianco / a liquefare il ferro delle spade / in conche d’esorcismo / e parole e parole a modellare / la vita in forme vive: / sostegni per la vigna, sedie / per i racconti della sera” conclude la lirica nella quale parola e coltivazione della vigna hanno pari dignità ed uguale forza vitale.
Nell’Inno per un libro di poesie d’amore e non solo (pagg. 95-97) l’autrice scrive: “Brevi note di liuto, voce di Antonio/ Ammetto il riconoscermi 7donna con orgoglio, in altra donna,/ sì proprio al Palazzo dei Domenicani/ sussulto afrodisiaco, profumo che cerca /la sua fonte carnale e s’inviluppa, /uomo che ti canta/ incantarsi cantata cospargersi di canto /piegarsi al canto incantatore/ amministrare il proprio flusso canto/ velo di conchiglia, arca ossessione /utero che annulla,/ benedizione giogo, manto, culla”. La lirica da cui ho citato alcuni versi è articolata in quattro parti, ognuna delle quali è introdotta da una sorta di didascalia che suggerisce quale strumento musicale e quale modulazione della voce accompagnino idealmente i versi (la conseguenza è che, disponendoci alla lettura-ascolto, seguiamo in una sorta di bidimensionalità parallela lo sdipanarsi delle parole, la modernissima poesia di Annamaria Ferramosca riafferma il proprio essere canto non scisso dalla musica); nella sequenza riportata, si noti, è una voce in origine maschile a dire, ma subito pronta a riconoscersi anche femminile, come nel mito platonico del SIMPOSIO (l’essere non ancora scisso) o come nel mito di Tiresia e come forse accadeva nelle comunità mediterranee preindoeuropee, presso le quali il canto dev’essere stata invenzione femminile e, tramite di esso, trasmissione di racconti mitici e di formule di guarigione, femminile invenzione capace di dar voce anche alla sfera maschile dell’essere umano, di dar voce, appunto, non di soffocare. Non è poi un caso che sempre nello stesso testo si faccia riferimento a Delfi, o meglio ad “una fanciulla di bellezza barbara” da Delfi e “a quella voce lentissima da Delfi / di donna che pure incanutisce / sta cantando”: Delfi, ómphalos della nostra civiltà dove una voce femminile vaticinava e dove il dio (maschio, ma in inscindibile dualità con la sorella Artemide) aveva ucciso Pitone, emanazione della religione autoctona preindoeuropea; è qui uno dei nodi attorno ai quali si dispiega la poesia dell’autrice, vale a dire la dialettica che viene costantemente riportata alla luce tra il sostrato mediterraneo della nostra civiltà e l’universo indoeuropeo, quest’ultimo segnato dalla violenza perpetrata contro la civiltà ad esso preesistente, quest’ultimo fondato sull’ideologia maschilista e guerriera, ma anche motore di civiltà successive (l’ellenica in primis) di cui ci nutriamo ancora oggi e di cui amiamo in modo totale le più alte realizzazioni dello spirito e dell’arte.
E quanta pietas percorre il libro, sia essa rivolta al ragazzo morto in un incidente di moto che a Jasmine, la ragazza di colore che si prostituisce “ai bordi della pineta”, o al kamikaze che si fa esplodere in Israele, oppure alle vittime dello tsunami del 26 dicembre 2004 o a Desirée Piovanelli, quattordicenne violentata e uccisa nel 2002 o ai bimbi assassinati a Beslan. Non è inaspettata tale pietas, dal momento che nell’intera opera di Annamaria Ferramosca la poesia non distoglie mai gli occhi dalle vittime, ma è anzi mezzo dolorante per rivolgere loro attenzione e solidarietà. L’homo sapiens è inteso alla guerra, ancora una volta la femminilità sembra essere la consapevole, determinante alternativa. Nascono versi straordinari per tensione poetica e originalità concettuale; per esempio: “Resto nella caverna dove mi sospingono/ tigre accucciata, strega carezzevole/ Tra le gambe stringo il mistero traslucido/ el amor brujo, /l’uovo da proteggere/ Non smetto /il mio canto sommesso che dissuade/ paziente, sotto l’impazienza del cielo” (8 marzo 2003, vv. 11-18)
E c’è la scelta consapevole, determinata di Eva che, raccontando la propria storia in prima persona, dice la propria libertà ed il proprio orgoglio di aver scelto l’umanità, anche quando quest’ultima è intrisa di dolore: “Scelgo. /Il dolore che libera /la finitezza del tempo /Addento la polpa sapida e bassa/ che mi abbassa/ fino alla terra scarlatta, /all’essenza dell’humus, sangue della nascita /Notte. /Adamo oh mio capitano /non puoi che seguirmi/ seguire il vaso intuitivo di femmina,/ il tuo femminile /cavità del tuo desiderio/ pienezza della mia costruzione/ Benedico quel frutto/ È valso soffrire se il grido/ mentre offro mio figlio alla terra/ il mio grido, il suo grido/ è sublime Germogliano intanto/ i semi di mela che avevo sputato/ Intorno /ho un ardente meleto” (Eva- diario dall’Eden, vv. 15-37)
Mentre ancora brucia e promette vita l’ardente meleto e risuona il grido del figlio, ricordiamo che umanità, uomo, umano derivano da humus, terra. La voce calda, cordiale, cristallina e capace di far risuonare e consuonare echi arcani che risalgono fino a noi dalle profondità della nostra storia e della cosiddetta preistoria, questa voce canta la terra-madre, la bellezza del concepimento e della nascita, per cui non può non essere avvertito come delitto ogni atto che la vita distrugga o che offenda la terra. Dire in poesia è cercare e dire un senso della giustizia capace di affermare e difendere la vita e l’amore, per cui Antigone (figura che ricorre in ben due componimenti) è ancora voce da ascoltare, anche seguendo la riproposta filosoficoesistenziale di Maria Zambrano, a noi necessaria pensatrice che ha vissuto nella propria carne la guerra civile del proprio Paese, l’offesa fatta ai vivi come ai morti, poi l’esilio, un pluridecennale esilio vissuto con forza morale altissima e trovando una patria nel pensiero, nell’instancabile riflessione: “Indossa la bianca veste/ d’Antigone disobbediente/ scrive per dire no alla morte per-uomo /scrive per chiedere” (Oggi una donna, vv. 6-10). “Nel buio lanci nitide risposte /e l’eco si moltiplica:/guarire la distanza, dissolvere l’esilio /fermare il diluvio col delirio/ (tu, salda sulla tua sedia bianca) (Antigone rinata, 25-30). È Antigone rinata a recare l’esplicita dedica a Maria Zambrano e, dato il buio e la sedia bianca (ancora una sedia dalla quale si pronunciano parole o s’intonano canti, notate?), il rimando sotteso ma evidente è al libro LA TOMBA DI ANTIGONE (tradotto e pubblicato in Italia dalla Tartaruga Edizioni di Milano), uno di quei testi della pensatrice spagnola che sono genialmente e opere filosofiche e opere poetiche; ma sottolinerei qui le mille ramificazioni che da questo libro si dipartono verso l’opera di altri poeti e pensatori, non nel senso che siamo davanti ad un’opera citazionistica, ma che mille linfe confluiscono con naturalezza a sostenere una voce già di per sé fortemente caratterizzata e cosciente, generosamente in dialogo con ogni aspetto del mondo circostante.
“Una nuova linea si ricompone,/ lucida s’allunga, /veloce saetta sulla carta, la perfora/ transfuga scia di luce vola/ sul nostro cerchio,/ lieve ci tocca in fronte, in petto /Allineati, ci stringiamo le mani /bruciamo di limpida invasione/ Fugge, caricata di luce, /pellegina dei continenti./ Si ricercano punti /– allo stesso – livello – d’amore” (Curve di livello, vv. 13-23). Le curve di livello sono dunque segni-pensiero che si distaccano, si allontanano dalla bidimensionalità del foglio di carta (la carta è, infatti, dis-orientata come si legge al verso 4) per “bucarla” e per ampliarla in uno spaziotempo a più dimensioni, in quanto siamo di fronte ad un comporre poesia che è anche un discendere (o un risalire) nel tempo lunghissimo e in gran parte ancora da decifrare che ci ostiniamo a chiamare preistoria, ma che forma un nesso inscindibile con la storia e con l’oggi. Questo è uno dei motivi dell’angoscia che la poetessa esprime, il terrore che il nostro passato (che dà significato al presente) vada perduto, inghiottito e maciullato dall’ossessione tecnologica che domina l’homo velox ferox: “- lost, lost – perduti/ il canto dell’errante pastore /la veste di Gongila/ le incessanti lanterne/ l’inchiostro vitale/ il nostro pianto utopico?” (Lost, lost, vv. 20-25). Perdita, dispersione, spreco sono atteggiamenti e fenomeni della nostra contemporaneità che angosciano questa poesia, la quale si esprime (lo notava Abele Longo in un recente, affettuosissimo intervento sull’opera di Annamaria Ferramosca pubblicata sul blog IL GIARDINO DEI POETI il 9 febbraio 2013) anche come difesa dell’ambiente e qui direi “ambiente” in doppio, coincidente significato: il pianeta inquinato e depredato delle sue risorse naturali ed anche lo spazio della nostra cultura e della nostra memoria a sua volta inquinato e distrutto. La ricorrenza di lessemi dal linguaggio informatico e biologico è un altro sintomo sia dell’attenzione al progresso tecnologico che inevitabilmente investe comportamento e percezione (la poesia non può non farci i conti), sia della consapevolezza di quali effetti negativi potrebbero derivarne. “(…..) riempirsi le mani di terra del microuniverso da proteggere” (Inventario dei luoghi domestici, vv. 5 e 6) sembra essere il conseguente imperativo.
Poesia che canta la vita, anzi, anche il generarsi della vita ed il suo venire al mondo, come nel testo seguente, di assoluta bellezza e di magistrale fattura, tratto dai CANTI DELLA PROSSIMITÀ (in LA POESIA ANIMA MUNDI, Puntoacapo Editrice, 2011): Di voce attesa
una specie di lamento sottile/ un gemito piccolo di gioia7 come un timbro distorto per l’iridescenza delle acque/ è la voce embrionale che attraversa la bolla salina 7risuona nelle vene alla madre/ e preme e le canta la sua elementare infanzia /chiede di sfolgorare in concerto nel giorno7 dell’uscita luminosa /quando il minuscolo corpo verrà adagiato/ sull’ addomepianeta che riconosce/ l’emissione di onde alla madre si compie/ per distacco di corone vocali sottili come aureole/e lei interpreta e trema e costruisce/ un paesaggio di case-alberi-strade/ divinazione al primo cammino /lei avvia un’assertiva preghiera/ salute prima poi bellezza e buona sorte ex aequo/ tutto accadrà dovrà accadere /per volontà- rito-destino /o solo per un in-cantamento”. L’addomepianeta, altro sintagma tipico e folgorante, riassuntivo e complessissimo (“cammino / sul ventre della madre / cercando toni limpidi / i passi spinte pazienti / di un parto-ostinazione: la vita sarà pietra / smerigliata dai venti” viene detto nella lirica ospitata in CURVE DI LIVELLO La stessa pietra, vv. 19-24 e che offre anch’essa l’immagine del ventre-terra, ripetendo l’immagine della pietra vivente, incarnazione di ciò che perdura, pur lasciandosi plasmare dagli elementi e dal tempo); l’iridescenza delle acque, ennesimo esempio di accostamento nominativo-genitivo che porta il linguaggio a liberare tutta la sua potenzialità metaforica ed immaginifica; assertiva preghiera, nesso aggettivo-nome capace di sovraccaricare di senso il sostantivo, costringendolo ad esprimere un concetto potenziato e determinante; in-cantamento, scavo nell’etimologia che identifica e riporta alla luce l’interconnessione tra atto poetico e rito, gesto sacrale e parola. E potrei dilungarmi nel commento, ma da lettore appassionato so che, ad un certo punto, il commento più efficace ad un testo che si ama è leggerlo e rileggerlo, impararlo a memoria e ripeterselo per suggerne la bellezza capace sempre di rinnovarsi e di stupire. Qualcosa di simile avviene in Nascita, scritta per Annina, figlia di Maria Grazia
il tuo tuffo albale/ l’odore di nebbia del premondo/ ti hanno lavato via dalla pelle/ la vernice del caos/ sei nel mare d’ossigeno e d’occhi /coi pugni stretti bussavi /che si lacerasse il morbido scafo/ il cielo si è incurvato /sul tuo battere di vele al passaggio /facile seguire la corrente /su scie di madre-musica/ voce ag-Graziata/ sei scivolata in un fascio di papaveri/ su questa terramara di palafitte/ che ancora ondeggia, non sorregge i giacigli /ti siano dolci il canto-latte, i fiori sulla riva/ le curve morbidissime dei ponti /ti sia chiara la luce che già bevi /nella percezione di minime costellazioni /– scintillano i denti di Arturo che sorride -/ e già vuoi sulla pelle a tatuarti /le prime gocce ardenti di parole/ felici ore a te, planata /sulle nostre ginocchia in preghiera/ volerti prendere per mano/ e tu a guidare” (Da Other Signs, Other Circles). Le “ginocchia in preghiera” mi fanno pensare ad una raffigurazione della Dea Madre Kourotrophos (nutrice dei gemelli) conservata nel Museo Archeologico “Paolo Orsi” di Siracusa: la Dea tiene sulle ginocchia i due gemelli e li allatta insieme, riaffermando la sacralità della nascita e della vita. Qui aggiungerei poi che viene sancita la sacralità anche di un’amicizia e la contiguità di due mondi poetici: se, come suppongo, Annina è la figlia di Maria Grazia Calandrone, la bambina dedicataria del bellissimo SULLA BOCCA DI TUTTI (Milano, Crocetti, 2010), ebbene si vanno incrociando due percorsi poetici che costituiscono anche i due poli di un rapporto amicale e che focalizzano il tema della vita, della sua difesa all’interno e contro le pulsioni distruttive della storia e, abbiamo già visto, della tecnologia disumanante.
Immergiamoci ora nel Leitmotiv del vino: “bicchierando gli amici ti denudano il cuore/ tu abbracciami la vita vitamara/ dulcimi pane e vino, pane e vino /tu scioglimi la vita vitangoscia /brindami pace e vino, pace e vino/ Sotto la vite un giorno après-midi/ un’anfora trovarono in forma di fanciulla/ Sul manico beata una tarantola in trance” (Un’anfora-fanciulla, vv. 17-26). Nei modi tipici del canto popolare (reiterazioni di ritmi e sintagmi) si materializza in queste pagine una farmacopea che consiste nella capacità guaritrice (o almeno lenitiva) del canto e nella ritualità e sacralità del vino: chi nasce in Mediterraneo sa bene quanto la vite ed il vino appartengano alla storia e alla cultura di questa vasta regione storico-geografica. Essenziale Musa-stimolo-e-maledizione o irrinunciabile destino è, ad esempio, il vino nella poesia di Salvatore Toma (“Toma, / se vuoi continuare a scrivere / devi smettere di bere. / Cari amici, / io devo fare molto di più / per smettere di bere : / devo smettere di scrivere” in CANZONIERE DELLA MORTE, Torino, Einaudi 1999) e potrei continuare con i rimandi: Alceo, Baudelaire, la tradizione persiana, fino a Li Po nell’Oriente estremo. Eccezionale per qualità ritmica (e non è il solo testo a donarci anche questo tipo di bellezza) Vineide in cinque stanze da cui devo limitarmi a citare la chiusa: “Intorno parole libere, inermi/- la guerra non è qui -/ qui solamente/ il dolce rumore della vita/ Ride questo sangue, antidoto/ al sangue versato controsenso/ Sempre io proteggo il giusto verso:/ dal bicchiere verso le vene/mai dalle vene verso la terra, insulsamente” (pag. 90). Mi piace non poco quel sempre io proteggo il giusto verso, il cui ultimo termine rima ancora due volte con se stesso e che, in italiano, significa sia direzione che, appunto, verso poetico: quest’ultimo è infatti un movimento dall’inizio alla fine dell’unità metrica, per dar vita poi all’unità successiva e così via. La direzione è quella della vita e quella della poesia, la poesiavita, se mi è permesso creare un sintagma imitando certi composti tipici di Annamaria Ferramosca, che qui ha una sorta di nume tutelare in Sandro Penna (è il dolce rumore della vita, è il canto della migliore tradizione italiana, come giustamente riaffermano, ad esempio, Elio Pecora e Roberto Deidier nel loro tornare a studiare e a riproporre il grande poeta perugino). Il vino e la vite, dunque, il vigneto ed i lavori ad esso connessi, il bere assieme sono tutte forti concretizzazioni di una cultura radicata, è proprio il caso di dirlo, nella terra, nel corpo della terra.
In uno dei testi che la poetessa ha presentato al Premio Turoldo 2012 si legge: “la casa è vicina alla cava di selce/ perché sia graffito sul muro il presagio vignarinascita/ e sia compreso il tempo/ compresi anche noi con il nostro/tozzetto di paneolio il bicchiere d’ebbrezza/ la vita così simile7a questa nebbia etilica chiara di voci/ nel cielo rossoacceso /e in petto un’onda larga/ così trascurabile è il prezzo della pace” (Vigne, vv. 21-31).
Ci si sarà certamente accorti anche della valenza di dialogo che CURVE DI LIVELLO ha, per cui (non casualmente) il testo poetico di chiusura è appunto un dialogo “con la mia inafferrabile compagna di sempre” come scrive la poetessa in nota: la poesia stessa, o meglio “Poesia” (sempre Ferramosca in nota). “Fermati, non svanire Sono stanca Sono qui di braccarti, sperare di snidarti Mi hai sfiorato lacerare i tuoi veli inflessibili Già non sono più qui” (Dialogo, vv.1-6). La struttura del testo si materializza nelle parole (sulla sinistra della pagina) invocanti, talvolta disperate o deluse, spesso cariche d’attesa e di desiderio dell’autrice, cui fanno da contrappunto o da sfuggente eco o da risposta appena accennata le parole della Poesia (in corsivo sulla destra). È dialogo che si sviluppa per 57 versi, è diario di una ricerca poetica che non separa vita da parola, né arte da vita, è resoconto di un itinerario individuale che s’intreccia al bene comune che è il linguaggio e che solo nel linguaggio trova senso e giustificazione. E quando la Poesia dice che “tutto è già scritto / tutto è già detto / tutto è già ascoltato” (vv. 15, 16 e 19), dice essa del mondo quale entità ed unità poetica già data, ma che attende chi la condurrà ad espressione, non, credo, in senso deterministico o passivamente rappresentativo, ma, appunto, poietico, dialogante. E se Annamaria Ferramosca scrive “ma scavo ancora per nuove fondamenta dovunque, soprattutto dove il terreno frana” (vv. 22-27) risponde Poesia in corrispondenza del v. 26 e del v. 27 : “Guarda / dove la terra freme” , creando un’esemplare paronomasia tra frana e freme, ché la poesia è in grado di vedere secondo altre prospettive quello che la nostra miopia mentale e biologica depriva, invece, del senso. Ma l’io lirico che lamenta il proprio fallimento proprio nell’enunciare tale fallimento dà ragione alla Poesia, se è vero che esso ha una pronuncia alta e riuscita, per cui leggiamo un altro verso, tra i tantissimi, di stupefacente, esaltante efficacia e bellezza, cioè il seguente: “Difficile spianare un largo spazio acustico” (vv. 28 e 29). In quale saggio, in quale trattato si potrebbe trovare un’espressione più persuasiva e, al tempo stesso, così esteticamente sublime del fare poetico? Un largo spazio acustico, uno spazio vitale per l’essere umano che pronuncia la parola (che la canta) e che, cantandola, la rende spazio del dire e dell’ascoltare. “Alludi alla vita che rifiorisce? Forse/ sul ciglio di ogni pozzo /che si ubriaca di canto/ È vita il canto” (vv. 48-52). “ È vita il canto”, ecco, per me lettore, la cifra di tutta la poesia dell’autrice salentina ed anche il suo motivo d’orgoglio: il canto, il linguaggio che, nel canto, dice la vita, muta ed opaca e priva di storia se non ci fosse la parola a dirla. E se la lirica (e con essa il libro) termina con i versi “ Svelati Impossibile o dileguati Assurdo” è perché la coincidentia oppositorum dell’impossibile svelarsi e dell’impossibile (meglio ancora: assurdo) dileguarsi può, sola, esprimere la lotta corpo a corpo che è la ricerca poetica.
A chi pazientemente ha voluto seguire fin qui il mio discorso mi permetto di consigliare anche l’esperienza profonda e toccante della lettura che Annamaria Ferramosca fa della propria poesia, usando la stessa cadenzata naturalezza della sua scrittura: ascoltate, vi prego, i CANTI DELLA PROSSIMITÀ (musicati in maniera appropriata e commovente da Gianmario Lucini) o cercate su You Tube i filmati delle letture pubbliche (in alcuni si può anche ascoltare una breve introduzione d’autore al componimento). Ritroverete i temi di CURVE DI LIVELLO, assaporerete nuove immagini di originale forza poetica, leggerete un libro sotto una luce zenitale, emergerete con l’autrice dal mare di Malta per una visita-rito ad un tempio a forma di donna, danzerete con lei in una piazza del Salento mentre cola il miele della musica e della guarigione sul ragno che morde e ri-morde, attraverserete gole boschive dove antichissime ossa umane sono diventate tutt’uno con la pietra, riceverete dalla mamma assieme alla poetessa bambina un pezzo d’impasto da torturare, rivedrete l’altalena di corda sotto l’olivo, vi coprirete con la sabbia d’una spiaggia sarda e lì chiederete ad una giovane incinta il tempo del parto…
Antonio Devicienti
http://cartesensibili.wordpress.com/2013/05/06/antonio-devicienti-tra-curve-di-livello-e-i-cristalli-del-linguaggio-di-annamaria-ferramosca/
https://analfabetiere.files.wordpress.com/2015/03/devicienti-7-ferramosca-curve-di-livello.pdf