Annamaria Ferramosca

Ciclica

La Vita Felice, collana Le Voci Italiane

Annamaria Ferramosca legge poesie dal libro Ciclica. Roma, Libreria Empiria, 21 aprile 2018, coordinano Diana Battaggia e il poeta Elio Pecora.


dalla sezione  Techne

 

scelgo  mi piace  e  condivido

 

soltanto se

la posa non è teatrale    se intravedo

il capo rasato sotto la pioggia

la stanza fiammeggiare

allontanarsi il punto cieco

 

l’urto mi chiedi l’urto ma

sei virtuale    un’ipotesi una

finestra sul vuoto    poi non so

quanto davvero vuoi

farti plurale

dimmi se chiami per conoscermi o solo

per riconoscerti

chiami chiami dai tetti

da eccentriche lune chiami da

nuvole    pure dal basso chiami

voce di fango che mi macchia il petto

segna la fronte    pure

si fa lacrima    cristallo che

taglia il respiro

 

stiamo come in un rogo a far segni attraverso le fiamme

malferme sagome stordite da mille nomi

la lingua disartícola e l’audio

sarebbe comprensibile soltanto se

intorno il rumore attutisse

se fossimo

puro pensiero    silenziopietra

statue serene dal sorriso arcaico

ai piedi un cartiglio e

lampi negli occhi

 


dalla sezione Angelezze

 

alberi

 

non sappiamo di avere accanto mappe di salvezza

dispiegate nei rami

gli alberi sono bestie mitiche

invase dall’istinto    fieri suggerimenti

restare accanto

non per generosità ma per pienezza

— intorno l’aria splende in rito di purità —

la terra tenere salda

perché sia quiete ai vivi

 

gli alberi hanno strani sistemi di inscenare la vita

prima di descrivere la morte

s’innalzano

con quei loro nomi di messaggeri

le vie tracciate sulle nervature

lo sgolare dei frutti

sii migliore del tuo tempo  dicono

 

devo

far correre quest’idea sulla tua fronte

devo

e tu su altra fronte ancora

e ancora   prima

che precipiti il sole

 


dalla sezione Urti gentili

 

urti gentili

 

mi  manca la lingua   mi manca

quella timidezza di vocali aperte

di  zeta dolce nel grazie

un incurvarsi della voce in gola

come a piegarla fossero le pietre

salentine del ricordo o forse

una malinconia residua della nascita

ingorgo che resiste

allo sperpero del vivere

 

furore dei cieli di una volta

grida bianche dei dolmen che insistono

nel vedere il mattino sorgere

sulle rovine   ogni  volta

qualunque sia l’inclinazione della luce

 

mi manca  quella strana paura

prima di ogni viaggio

come un sottile rifiuto della distanza

come di albero che impone alle radici

un limite all’espandersi e si concentra

sulla cura dei frutti

 

pure amo

tutto questo calpestio di genti nella città

l’impasto lento di animelingue

il rompersi dei meridiani   l’inarcarsi dei ponti per

urti gentili

questo annodarci annodando

i cesti della fiducia con antiche dita

 


dalla sezione Ciclica

 

revisioni

 

errore: non essere rimasti accanto al fuoco di fila

con occhi di cane a implorare o — muso in alto — ad abbaiare

urgenza del mutare

un grido-scheggia che trapassi la retina

apra varchi inattesi

un tempuscolo rovente che accenda

la permanenza stabile del coro

torre inattaccabile dove

le lingue si traducono solo sfiorandosi

 

così i fallimenti possono mutare

in categorie di seduzione

come la catena trasmessa dal seme al frutto

nonostante il  marciume   il trambusto dei rami

 

pagine ancora per voltare pagina

 

ancora

un sangue abbiamo  consapevole

di voler coagulare   come fosse troppo nobile

per  l’uscita selvaggia dalla vena

umori fertili abbiamo  

che premono sulla fioritura   

e profili aggraziati a chiamare

la tenerezza degli urti le gratitudini

 

abbiamo sulla fronte un rogo che fa paura

ma nell’aggrottare appaiono    onde

un oceano che trascina

il mio corrimano di legno    tentativi di ponti

capre e pastori erranti  (hanno il nostro profilo)

pani   tastiere   reti

incastrate tra rami di olivo e note di sassofono

e  — a ondate —  pagine

immarcescibili (la voce come di un’alba o di un vagito)

pagine ancora

per voltare pagina