Su neobar, 27 nov 2010 intervista di Abele Longo

Su neobar, 27 nov.2010 intervista di Abele Longo

Poetry Lab: Annamaria Ferramosca

 

 

Da dove viene la tua poesia?
Dall’ossessione. Quella di guardare “attraverso”. Ogni essere, ogni luogo, ogni parola. Dalla voglia di perforare anche il silenzio. Perché anche il silenzio ha un suo alfabeto. Insomma sempre ho inseguito la poesia -e ancora la inseguo- come un’infante insaziabilmente curiosa, che non sa fermarsi di fronte alla copertina opaca del libro, ma decide di leggerlo tutto avidamente perché sa che qualche pagina di sicuro farà scintille.

Per chi scrivi, come immagini il tuo lettore?
L’impressione, mentre scrivo, è di aver accanto un amico, cui vorrei fare un regalo. Un regalo che è una piccola scoperta di bellezza, se vuoi una minima verità da condividere. E l’amico è anche ironico, e aspetta il verso come un pretesto per uno scambio di opinioni su noi, sul mondo, come si fa tra amici. E io mi aspetto, anzi pretendo, che l’amico-lettore mi colga anche in fallo, e mi critichi. La famosa utile critica onesta, costruttiva.

Come vivi, con te stessa e con gli altri, il tuo essere poeta?
Con me stessa: provo una quasi felicità mista a sofferenza, perché la scrittura è continua estenuante ricerca, dagli esiti imprevedibili. Può aprirti squarci insospettati di potente percezione, farti provare l’indicibile gioia della restituzione efficace nei versi, ma può anche ferirti, perfino insultarti, mettendo a nudo il tuo balbettare, la tua afasia. Succede per paralisi da troppo stupore o per l’insondabilità del mistero o di fronte alle assurde macerie dell’umanità.
Con gli altri: mi piace dilatare la mia dimensione di poesia soprattutto ai giovani, farli partecipi di sensazioni ignorate, fatte di parole. Ci provo leggendo loro brevi testi e consigliando letture, talvolta con i più entusiasti sono riuscita a far scrivere “pensieri poetici” a più mani, come piccoli co-poemi. Il primo comandamento per chi si accinge a scrivere poesia penso sia imparare la distanza dal “narciso”, e scrivere collettivamente un testo è una lezione efficace. Ho sperimentato personalmente questa gioia della coscrittura, che moltiplica e addensa l’immmaginario, scrivendo a 4 mani “dual poems”insieme alla mia amica Anamaria Crowe Serrano, poi confluiti in una raccolta dal titolo “Paso Doble”, edita da Empiria. Dischiudere la porta delle poesia agli analfabeti poetici è però un gesto che ha bisogno di grandissima discrezione e amore. Nella vita quotidiana ci s’imbatte con più frequenza nell’atteggiamento di compatimento o derisione del “poeta”normalmente considerato soggetto inutile o di qualche strana utilità solo post mortem. Da tutto questo mi salvo immergendomi con tutta me stessa nella vita reale e coltivando una feroce autoironia.

Come hai iniziato?
Leggendo Leopardi. Avevo 7-8 anni.

Come ti veniva insegnata a scuola la poesia, che ricordi hai?
La mia è la generazione delle poesie di Pascoli-Carducci da mandare a mente, poi -al liceo- dello studio letterario noioso, trasmesso senza passione e approfondimento, senza far sentire, nei testi degli autori studiati, l’emozione di costeggiare il mistero della parola, cui sarei poi arrivata da sola, attraverso autonome letture appassionate. Uno sterminato chilometraggio di lettura che mi ha convinto che la poesia sia un tratto genetico comune a tutti. Poesia proprio nel senso di” logos embrionale”, affondato nella psiche, di cui parla Maria Zambrano, che nei poeti affiora e si esprime attraverso la capacità visionaria,il talento di prefigurare perfino l’oltre e restituirlo in parole memorabili, e che negli altri resta come capacità di riconoscere la poesia-sul modello primordiale interiore, semplicemente leggendola /ascoltandola. Così, pur ostinandomi a scrivere, non finirò mai di voler conoscere-riconoscere, leggendo, i tanti meravigliosi territori dell’immaginario dei poeti di tutto il mondo.

A chi fai leggere per primo i tuoi versi?
A qualche amico/amica, meglio se non”addetto ai lavori”. Per capire se il linguaggio è capace di “far passare” la comunicazione, di provocare quello straniamento felice che indica la presenza di quel minimo segno di qualità alla scrittura. Sapendo bene che per affermare che una scrittura è poesia, l’evento dovrebbe verificarsi per larghissimi numeri e lungo molti anni a venire. Non nutro illusioni, vivere e scrivere mi basta.

Usi la penna e/o il computer?
Sempre la penna. La penna per molte stesure ristesure. Poi, quando lo stato di insoddisfazione si è sufficientemente alleggerito-non sono mai completamente soddisfatta-, passo al computer per il “salva con nome”(con il suo ironico sapore di destino). Ripesco poi il salvato anche dopo mesi per verificare se l’effetto freschezza e memorabilità persiste…

Quanto viene di getto o è frutto di lunghe elaborazioni?
Dopo che la scintilla emozionale ha provocato il primo verso, la scrittura si fa imprevedibile: può fluire spontanea o arrestarsi improvvisamente, come di fronte a un diaframma che chiede di essere lacerato. Qui è inutile ostinarsi, arrovellarsi, meglio chiudere il quaderno e ritornare sulla pagina quando avverto di nuovo quel “tremore preverbale” che preme, che inevitabilmente mi riporta sulla soglia su cui mi ero fermata, per sfondare la porta.

A parte le tue, quante poesie di altri pensi di ricordare a memoria?
Tengo a mente solo pochissimi miei testi, quelli che nelle letture pubbliche -almeno così mi sembra- hanno coinvolto di più, toccando le corde più profonde del cerchio umano, il senso largo della condivisione. Ho mandato a mente in passato -ora non mi accade più- brani di Saffo, Garcia Lorca, Celan, Pizarnik, Rosselli.

Un consiglio prezioso da passare agli altri.
Leggere leggere leggere poesia. Prima di provare a scrivere.

Un poeta su tutti.
Non solo uno, ne avrei tantissimi, di poeti esemplari. E non su tutti, ché tutti non conosco. Dunque non farò nessun nome. E a tutti sono infinitamente grata del di più che hanno dato alla mia vita.